venerdì 24 novembre 2017

L’arte di evolversi: una parabola buddista




Su invito di una mia carissima amica che, tempo fa, mi chiese di approfittare dello spazio del blog per approfondire alcuni argomenti buddisti (non faccio nomi, ma lei sa perfettamente di chi sto parlando), oggi vi parlo del concetto di non-attaccamento e, per farlo, mi avvarrò di una parabola.

Le scritture buddiste sono piene di parabole concepite per permettere alle persone di comprendere il profondo insegnamento che vi sta dietro.

La parabola, infatti, è un genere letterario, noto anche agli autori greci e romani, in forma di racconto, finalizzato a trasmettere un qualche tipo di insegnamento morale o spirituale.
Cos’è, dunque, una parabola? È la capacità di mettere in relazione un fatto preso dalla vita quotidiana con un insegnamento che rimane in gran parte velato. Rimarrà all’uditore (nel buddismo si è sviluppata per secoli una grandissima tradizione orale prima di giungere alla tradizione scritta, ossia quella che possiamo ritrovare nei vari Sutra e che altro non sono che la trascrizione degli insegnamenti orali) o al lettore il compito di discernere, nel racconto “raffigurativo”, l’insegnamento che viene espresso.

Quindi, nella parabola viene inscenato un racconto finto; ad un certo punto della narrazione l’ascoltatore viene trasportato dalla finzione alla realtà e viene quindi invitato ad esprimere un giudizio che avrebbe faticato a spiegare altrimenti. 

L’espressione del concetto fondamentale, dunque, non avviene attraverso un discorso chiuso e definito, ma attraverso un lampo di percezione che permette di andare oltre il senso del racconto. L’intelligenza dell’ascoltatore viene perciò stimolata a intuire e a proseguire, senza fermarsi ad una comprensione forzata, ma attraverso una libera adesione.


La parabola che propongo in questa occasione è quella della zattera, tratta dalla Majjhima- Nikāya, raccolta nella Sutta-Nipāta, ossia una collezione di scritture redatte in lingua pali, che appartengono alla tradizione del buddismo Theravada.
Giacché ho introdotto questa informazione, ne approfitto per accennare una spiegazione sintetica tra la tradizione Theravada e quella Mahayana.

La tradizione Theravada, che significa «tradizione degli antichi»,  ha origini nello Sri Lanka intorno al 240 a.C. e si basa sui sutra del canone Pali, cioè la più antica raccolta dei discorsi del Buddha storico. Secondo questa scuola di pensiero, un discepolo ha lo scopo di divenire un Arhat, cioè colui che raggiunge il Nirvana per non rinascere mai più. Questo stadio, richiede un’esistenza assolutamente rigorosa e di rinuncia del mondo.
Per converso, la tradizione Mahayana, si è sviluppata in India nei primi secoli dell’era cristiana e ancora oggi risulta molto diffusa in Tibet, Nepal, Cina, Giappone, Corea. In base a quest’altra scuola di pensiero un discepolo mira a raggiungere l’Illuminazione per diventare un Bodhisattva, cioè colui che ritarda l’entrata nel Nirvana per aiutare altri nella via della salvezza. Il Mahayana comprende molte e differenti tradizioni che divergono anche sulle specifiche modalità con cui si possa raggiungere questo obiettivo. Nell’ambito del Mahayana sono stati composti molti testi che, benché scritti molti secoli dopo la vita terrena del Buddha, sono considerati «sutra», cioè discorsi del Buddha stesso.
Nonostante queste differenze, le due tradizioni sono coesistite per secoli nei vari paesi e talvolta addirittura all’interno degli stessi monasteri.

Per esser chiara, vi informo che personalmente preferisco il buddismo della tradizione Mahayana, ma questa parabola, credetemi, ed è molto adeguata allo scopo.
Ciò che essa intende spiegare è l’arte di non sprecare la propria vita legandosi a un passato che non può tornare più, ovvero l’importanza di attuare un sano distacco. Nell’ottica di favorirne la comprensione vi espongo alcune mie considerazioni di supporto.

Il succo del racconto consiste nel tener presente quanto sia importante, per vivere bene, lasciarsi alle spalle ciò che non ci rende sereni (che potremmo immaginare come tante zavorre) e che ci impedisce di aprirci al nuovo.
Protagonisti sono un uomo e una zattera che simboleggia ciò da cui dovremmo separarci lungo il cammino della nostra vita.

Ecco il racconto:

“Supponiamo che un uomo sia di fronte ad un grande fiume e deve attraversarlo per raggiungere l’altra riva, ma non c’è una barca per farlo, cosa farà? Taglia alcuni alberi, li lega insieme e costruisce una zattera. Quindi si siede sulla zattera e usando le mani o aiutandosi con un bastone, si sposta per attraversare il fiume. Una volta raggiunta l’altra sponda cosa fa? Abbandona la zattera perché non ne ha più bisogno. Quello che non farebbe mai, pensando a quanto gli era stata utile, è caricarla sulle spalle e continuare il viaggio con lei sulla schiena. Allo stesso modo, i miei insegnamenti sono solo un mezzo per raggiungere un fine, sono una zattera che vi trasporterà sull’altra riva. Non sono un obiettivo in sé, ma un mezzo per ottenere l’illuminazione”

E questa sarebbe la condizione ideale, ovvero una volta che non ci serve più e una volta raggiunto l’obiettivo che desideriamo, la cosa più normale da fare sarebbe abbandonare la zattera.
Ma alcune persone salgono sulla zattera e non remano, dimenticando che devono arrivare dall’altro lato. Finiscono così per perdere la prospettiva ancor prima di iniziare il loro viaggio. E allora si concentrano sulla zattera per renderla più comoda: costruiscono pareti, il tetto, l’arredano.
Cioè, trasformano la zattera in una casa e la legano saldamente alla riva. Non vogliono sentir parlare di mollare le cime o issare l’ancora.
Vediamo come continua la narrazione:

“Altre persone si fermano a fissare la zattera dalla riva e dicono: 'Che bella zattera, è grande e solida'. Prendono il metro e la misurano. Sanno esattamente quali sono le sue dimensioni, il tipo di legno con cui è costruita e dove e quando fu costruita. Alcuni vanno oltre e realizzano una scheda tecnica che serve a vendere zattere all’ingrosso. Ma per quante zattere vendono, non sono mai saliti su di una e non hanno nemmeno pensato di attraversare il fiume. ‘È troppo rischioso’, pensano”

Ancora ci sono persone che rimangono a riva per costruire una zattera più grande e sicura, così da affrontare il viaggio senza pericoli. Ma succede che rimangono esattamente dove si trovano, facendo considerazioni, litigando e arrabbiandosi:  in questo modo non vanno da nessuna parte.

“Alcune persone pensano che la zattera sia troppo semplice, rustica e poco attraente. La guardano e scuotono la testa. ‘Sembra un fascio di tronchi legati in modo approssimativo’. Così decidono di abbellirla, la dipingono, la decorano e la ricoprono di fiori, ma non arrivano mai a salirci sopra, tantomeno pensano di remare fino all’altra riva”

Ed ecco che il racconto riserva la sua spiegazione:

“La riva sulla quale ci troviamo è il presente, l’esistenza legata all’ego, l’altra riva è quello che aspiriamo a diventare, rappresenta i nostri obiettivi e sogni. La zattera ci aiuta ad attraversare le acque, questa è la sua funzione, ma dopo dobbiamo abbandonarla”

Così la zattera diventa il simbolo di tutto ciò che nel passato e nel presente ci è servito per arrivare da un’altra parte, ma dobbiamo imparare ad abbandonarla, non a tenerla sulla schiena.
La zattera non si riferisce solo ai beni materiali, è tutto ciò che ci lega e ci impedisce di raggiungere il nostro pieno potenziale: possono essere relazioni interpersonali che hanno perso la loro ragion d’essere, o certe credenze, o certi insegnamenti che un tempo abbiamo creduto utili (e che forse lo sono anche stati, proprio perché funzionali a quel preciso momento storico), o certi tratti o della personalità che ci tengono legati a una condizione che non ci appartiene più.
In sintesi, il racconto ci parla della nostra tendenza ad aggrapparci a cose e situazioni, finendo per sprecare la nostra vita. A volte lo si fa per paura, ma il cambiamento fa parte della quotidianità ed è necessario scoprire cosa ci riserva l’altra riva.

Con tutto ciò, a scanso di equivoci, il concetto di non-attaccamento non intende negare l’importanza del passato, ma proporne una “lettura” scevra da inutili e dannosi orpelli, mettendo in luce un passaggio fondamentale, ovvero la consapevolezza di chi siamo, di cosa siamo, di cosa stiamo facendo, di cosa stiamo pensando, senza trascurare il punto di partenza per la nostra salvezza: ricordare il nostro vero scopo.

E ora lascio a voi la parola: cosa ne pensate?

Un caro abbraccio e buona settimana a tutti! :)

25 commenti:

  1. Molto piacevole. Non so cosa dire, la mia vita racconta di innumerevoli zattere e altrettanti fiumi attraversati. Nella vita, nel lavoro, in tutto. Non credo di essere arrivato da nessuna parte. Sono ancora "der suchende". Ricordo la lettura giovanile di Siddharta che presi a paradigma della mia inquietudine adolescenziale, ora, che sono alle soglie dei cinquant'anni, il viaggio prosegue, le inquietudini sono diverse, ovviamente, ma ho ben chiaro che il bagaglio non deve essere fardello. Non è sempre facile.

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    1. E come darti torto, Max, quando dici che non è facile mettere in pratica certi concetti? Non lo è per niente. Ma tracciare un solco, ossia creare una tendenza a orientarci nella direzione che ci spinge avanti, nonostante le avversità, è senza dubbio un evento degno di grandissima lode. Quindi, non credo che il tuo “naufragare” non ti abbia portato da nessuna parte. Non mi permetto di aggiungere ciò che non conosco, ma immagino che ogni “viaggio” ti abbia restituito un bel po’ di materiale sul quale, quanto meno, riflettere.
      Il fardello qui indicato nella parabola è ciò che oggi (nel punto in cui ci troviamo) ci fa stare male. O meglio, può anche farci stare apparentemente bene (questa natura è decisamente subdola e trae in inganno), per poi accorgerci, con il procedere del tempo, che ci ha semplicemente avvelenato e che ci appesantisce inutilmente la vita.
      Ogni uomo ha la sua storia. Per alcuni può trattarsi del lavoro, ad esempio. Un lavoro che apparentemente dona grandi soddisfazioni, ma che una volta posto sotto analisi appare sorprendentemente come qualcosa che sottrae più energie del dovuto; può trattarsi di un ambiente (fisico o psicologico); di persone con le quali si fatica a entrare in risonanza; possono essere mille cose… ma tutto origina da come le percepiamo e dal motivo per cui le percepiamo in quel modo.

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    2. Assolutamente vero Clementina, non a caso ho sottolineato che, quantomeno, ho almeno imparato gestire il famoso bagaglio in modo da impedire che diventi fardello. Il discorso che fai sulla percezione è importantissimo e aprirebbe un nuovo capitolo di discussione.

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    3. E hai perfettamente ragione, caro Max! Ce ne sarebbero tantissime di cose da dire ancora e senza dubbio la percezione è una di queste. Buona serata e a presto! :-)

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  2. Che bell'articolo, Clementina, complimenti. Non conoscevo questa parabola, che nella sua semplicità è molto efficace. Mi sembra di vedere anche dei riferimenti a chi si concentra troppo sul mezzo al punto da farlo diventare un dogma, dimenticando così anche la funzione originaria. E con ciò penso ai tanti insegnamenti di crescita interiore che vengono irrigiditi al punto da perdere valore per chi utilizza.

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    1. Ciao Maria Teresa, che piacere ritrovarti qui!
      Guarda, il tuo esempio calza a pennello e fa il paio con la parabola proposta, dopo di te, da Francesca. Quando si intraprende un percorso, qualunque esso sia e a maggior ragione questo vale se esso viene preventivamente identificato come cammino di crescita interiore, ciò che conta è la sua diretta sperimentazione. Per quanto possano essere importanti gli insegnamenti, o le tecniche suggerite da adottare per conseguire quella strada, e per quanto possano essere autorevoli e certificate le fonti che indicano tali insegnamenti/tecniche/ecc., se poi non le si mette in pratica, non solo si avrà l’impressione di rimanere in una condizione di stallo, bensì, sempre secondo il buddismo, si retrocederà inevitabilmente. E, quindi la situazione in cui ci si andrà a ritrovare sarà ben peggiore di quanto immaginato. Un’altra metafora che mi viene in mente, rispondendo al tuo bel commento, e che riguarda anche in questo caso il senso dell’evoluzione spirituale e del corretto approccio suggerito per affrontarlo, mette in luce un aspetto spesso erroneamente trascurato. In buona sostanza, è usanza dire che il neonato si nutre del latte materno senza che nessuno gli spieghi di cosa esso sia composto, né di come lo debba succhiare: il nostro istinto (che poi ci sarebbe da aprire una lunghissima parentesi anche in relazione ad esso) possiede una saggezza di gran lunga superiore alle idee (molto spesso) imbrigliate della nostra mente…

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  3. Bell'articolo e bella parabola, ancora una volta hai saputo sorprenderci! Per quanto riguarda l'atteggiamento del secondo gruppo di persone, assomiglia a quello dell'erudizione fine a se stessa: persone che sanno moltissimo, ma non si mettono mai in gioco, per cui la cosa finisce lì. Proporrei l'introduzione del gruppo degli invidiosi, che assistono mentre gli altri usano la zattera e remano fino all'altra sponda, e criticano lo stile di "nuoto" e l'aspetto umile della zattera.

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    1. La zattera corrisponde a una zavorra, intesa come peso inutile, superfluo per il conseguimento dello scopo primigenio. Quindi, nel tuo riferimento a persone che studiano anche moltissimo, ma che non mettono mai in pratica ciò che hanno studiato, ciò che va a costituire la zattera non è tanto l’acquisizione di tutte le informazioni assunte, quanto semmai l’attaccamento manifestato a quella specifica condizione di studio, che molto probabilmente apporta gioia a questi individui, quando non li induce addirittura in uno stato di estasi. Questa è la zavorra che impedirà a tali persone il conseguimento dell’illuminazione. Detto in altre parole, la loro ritrosia ad abbandonare quella condizione (che il buddismo abbina a un preciso stato vitale) impedirà loro di evolversi e tenderà a cristallizzarne la crescita, spirituale e materiale. Un elemento da tenere sempre in seria considerazione, anche in questo caso, cara Cristina, è infatti il grado di consapevolezza. Per quanto riguarda il gruppo da te suggerito, degli invidiosi, calza benissimo con l’esempio e anche questa ipotesi si iscrive nell’ordine degli stati vitali appena menzionati. Sia chi si lega allo stato di estasi o di studio, nell’accezione descritta poc’anzi, sia chi si lega allo stato vitale dell’invidia (che per il buddismo rientra in una delle tre categorie più basse, ovvero quella di inferno) corre il rischio di rimanere bloccato e di non saper procedere di un passo. Non solo, ma si ritroverà a sperimentare costantemente le medesime situazioni/condizioni/sentimenti, stratificandoli uno sopra l’altro.
      Credo che prossimamente scriverò un post nel quale approfondirò l’argomento…

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  4. Ti rispondo con un'altra storia di origine buddhista, "Il cavallino e l'acqua". Se devi solcare le acque, non fidarti dei consigli di nessuno, non avere zattere (la zattera non è citata, ma uso la metafora per agganciarmi alla storia citata da te) né dubbi: vai e tenta da solo, con le tue forze.
    Giudicherai tu stesso come sarà l'acqua e cosa dovrai fare.
    Namaste!

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    1. Carissima Francesca :-), stupenda anche questa parabola! Praticamente la risposta che ho fornito a Maria Teresa la potrei riportare, pari pari, qui. Non esiste nulla di meglio che sperimentare in prima persona le proprie scelte, ricordandosi nel farlo, di credere sempre fortemente in ciò che si sta facendo… e anche qui dovrei aprire un mega finestrone per entrare nell’approfondimento di questo passaggio…
      Namaste!

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  5. Non ho mai avuto modo di approfondire la conoscenza di queste culture lontane, affascinanti, che proteggono la virtù di insegnarci tante cose. Ho conosciuto diversi buddisti, e tutti mi sono parsi molto sereni e in pace con se stessi. E' evidente che l'insegnamento buddista sia efficace per raggiungere l'allontanamento da ogni bene materiale.
    Mi sono accostata alle filosofie di questo tipo leggendo diversi anni fa i libri di Osho (ne avrai sentito parlare), che buddista non è ma che scrisse cose assai interessanti a me utilissime in un brutto momento della mia vita. Di tutti gli argomenti trattati da queste filosofie, proprio liberarsi dall'attaccamento a ciò che non solo è passato ma che ci fa anche soffrire mi è parsa la cosa più interessante. Il saggio mi appare come un essere umano "superiore", vorrei potergli assomigliare almeno un po'. :)
    Oggi sto decisamente meglio, ma davvero attraversare queste culture in momenti particolari aiuta.

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    1. Per liberarci da ciò che ci fa soffrire, prima è necessario riconoscere i fardelli che appesantiscono il nostro procedere e le filosofie orientali, così profonde e al contempo (quasi paradossalmente) così pragmatiche, sono sempre di grande aiuto in questo. Non è, infatti, tanto semplice riconoscere ciò che nuoce da ciò che crediamo ci faccia star bene!
      Conosco Osho e ritengo che tutti quelli che, come lui, hanno contribuito in modo serio a chiarire concetti profondi e complessi che afferiscono a buddismo, induismo, ecc., siano degni di rispetto. Quindi, per quanto mi riguarda, essi saranno sempre i benvenuti.
      Resta inteso che l’interpretazione di questi pensieri è cosa delicatissima e spesso diventa fonte di contrasti, equivoci, speculazioni, finanche raggiri, ecc. Ma non mi pare il caso di affrontare il tema in questa sede :)
      Quello che mi sento di sottolineare è che chiunque può studiare i principi del buddismo gratuitamente (dal punto di vista economico, poi è chiaro che ciò comporti uno sforzo individuale di applicazione e via dicendo), mentre non sempre si può dire altrettanto di altri corsi, oggi tanto in voga e tanto diffusi, che attingono a piene mani al buddismo spacciando i propri elaborati per originali, quando originali non sono (mi riferisco ai vari corsi di mindfulness e simili). Ma ognuno è libero di fare come crede e, tutto sommato, ogni strada è buona purché persegui uno scopo nobile. Quindi, per rispondere all’ultima parte del tuo commento, aggiungo che, sì, queste culture sono in grado di offrire veramente un grande supporto.
      Un giga abbraccio!

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  6. Una cultura molto affascinante e che fa riflettere.
    Serena notte.

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    1. È vero, condivido appieno le tue parole e ti ringrazio tantissimo del passaggio, Cavaliere.
      Buonissima giornata anche a te e ancora grazie!

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  7. Bellissima parabola che non conoscevo. Mi ha richiamato alla mente un video che ho visto poche settimane fa del Maestro David Simurgh dove parlava proprio del lasciare andare "zattere" che possono essere credenze, relazioni, abitudini, eccetera e sottolineava il grande coraggio che tutto questo comporta perché si entra in un territorio inesplorato. Quindi a volte è solo la paura dell'invito che ci fa restare all'interno di situazioni che non ci sono più di alcun sostegno nel nostro procedere ma è un male a noi noto.....
    Un abbraccio

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  8. Mannaggia al correttore! "Invito" era "Ignoto"

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    1. Mia bella Lisa, come dicevo a Luana, ben venga chi aiuta a riflettere su questi temi. Temi che sono stati sviscerati, da millenni, dalle filosofie orientali.
      Il coraggio di procedere verso l’ignoto è fondamentale, ma prima ancora occorre la consapevolezza di chi siamo e di cosa vogliamo “veramente”. Infine, la distanza tra ciò che ignoriamo, tra l’oblio che temiamo e il momento in cui tutto si illumina, può essere minima. Poi si riparte verso nuove avventure!

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  9. Una parabola bellissima,legata a quelle filosofie che hanno molto da regalarci a livello di illuminazione. La zattera che alcuni costruiscono per affrontare la corrente e arrivare all'altra sponda, e altri restano a guardare l'altra riva senza avere il coraggio di raggiungerla. Metafora che si lega alla capacità individuale di rischiare, di attraversare le difficoltà allontanandoci dal presente legato al nostro ego per affrontare il pericolo e raggiungere l'altra sponda che rappresenta quello che aspiriamo a divenire. Profondamente bella la frase:"Non sono un obiettivo in sè, ma un mezzo per ottenere l'illuminazione. Non trovo le parole per ringraziarti Clem. Questo blog è un varco sconfinato sul mondo e le sue infinite proiezioni!

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    1. Ti ringrazio tantissimo, Anna! Sono felicissima della discussione che si è creata intorno a questo tema, ciascuno di voi ha apportato un grande valore aggiunto. 😊
      E che meraviglia l'idea da te suggerita del varco sul mondo e le sue sconfinate proiezioni!
      Ancora grazie di cuore!

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  10. Non conoscevo questa parabola, grazie per avermela fatta conoscere!

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    1. È per me un vero piacere!
      Grazie mille, Nick e buona serata!

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  11. Buongiorno Dani, ho letto con grande piacere il tuo post e alcuni degli interventi, traendovi ricchezza di spunti, come sempre. Per quel che mi riguarda le zavorre sono spesso pensieri inutili, elucubrazioni gratuite e dannose della mente, confronti con o anche solo vicinanza di (a volte basta anche la presenza nello stesso ambiente) persone mediocri, che sono tante in giro, che devono essere tenute a grande distanza, difendendo strenuamente la bellezza della nostra vita, delle nostre idee e del nostro animo. Un forte abbraccio e buona giornata

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    1. La bellezza della nostra vita va difesa costantemente, sono completamente d'accordo. Vanno tenuti a distanza i pensieri nocivi, così come tutte le energie tossiche che ci portano a mortificare noi stessi, opprimendoci, o alterandoci. Anche quando esse albergano dentro di noi, come ombre che temono la luce, o dentro persone il cui unico obiettivo è sempre quello di farci sentire miserrimi, o dentro sostanze che, come il canto delle sirene, promettono facili conquiste, mentre offrono solo l'annientamento.
      Progredire comporta mettersi in gioco e per riuscire a mettersi in gioco è necessario uno sforzo fondamentale: togliersi la maschera, abbandonare le lenti deformanti che ci fanno credere di essere molto più deboli di come siamo, o molto più forti di quello che siamo. Solo così potremo sgombrare la mente dalle catene della paura, per iniziare un nuovo percorso.
      Un giga-abbraccio, bella Baba e buona serata!

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  12. Con questo post tocchi argomenti a me molto cari, perché trovo nel buddismo una quantità di spunti utili alla mia vita. Il concetto di non attaccamento è tanto fondamentale quanto mal compreso da chi rimane alla superficie, un po' come quello di karma. Mi capita spesso di sentire come critica che non è giusto distaccarsi dalla vita reale, ma non ho mai trovato nei testi buddisti che conosco questa idea, soltanto l'esortazione ad assumere un atteggiamento equilibrato, oltretutto verificato tramite la propria esperienza e non basato sulla cieca fiducia in qualche dogma. Onorare il passato, attribuendogli la sua importanza, è importante quanto saperlo salutare quando è il momento. In fondo restargli attaccati nel pensiero è un po' come vanificarne l'utilità. Grazie del bel post! :)

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    1. Parole sante, mia cara Grazia! Il passato merita grande rispetto, ma quando è giunto il momento di procedere bisogna immergersi nel "qui, ora".
      Ogni tentativo di rimanere agganciati a qualcosa che è già sfumato e/o che non può più entrare in sintonia con le nostre corde, perché nel frattempo noi siamo diversi rispetto a come eravamo, sottrae preziose energie e distoglie lo sguardo dal presente, rendendoci deboli e confusi, incapaci di evolverci.
      Inoltre, dici benissimo anche quando affermi che il buddismo non esorta ad abbandonare la vita reale: tutt'altro! Non esiste filosofia più radicata alla quotidianità; lo è a tal punto che suggerisce di osservare la realtà a tutto tondo, da tutte le angolature, rimanendo totalmente presenti, dopodiché ci invita esplicitamente a valutare l'efficacia dei suoi insegnamenti attraverso la personale esperienza. Più concreta di così non si può.
      Grazie del bellissimo intervento! 😊

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dani.sanguanini@gmail.com