lunedì 26 febbraio 2018

Alice in Wonderland, le mie sei cose impossibili





Di recente ho ripreso in mano un vecchio libro che conservo gelosamente, l’ho riletto e ho deciso di parlarne qui sul mio blog.
Quelli della mia generazione lo avranno approcciato in gioventù, altri lo avranno sentito citare più e più volte, probabilmente qualcuno lo ignora ancora.

Per me il punto è che quel testo “ha voluto farsi ritrovare” e a mio modo di vedere se qualcosa “ti viene incontro” vuol dire che ti può servire.
Sono prolissa?
Può darsi, ma concedetemelo perché l’argomento merita un’introduzione graduale.

Prima di chiarire la curiosa dinamica del ritrovamento del testo, lasciatemi svelare un antefatto. Dovete sapere che la scorsa settimana, entrando come consuetudine sul blog “Ivano Landi – Cronache del tempo del Sogno” ho avuto il piacere di leggere un magnifico articolo intitolato “Alice in Wonderland o delle Sei CoseImpossibili.

Ebbene, il pezzo in questione partecipa al TAG Alice in Wonderland, lanciato dalla blogger Cuore Rotante e nato con lo scopo di (cito testualmente): “creare un Tag con l’augurio che, come diceva la Regina ad Alice, allenandoci giornalmente a pensare a sei cose impossibili, possiamo avere quello stimolo in più che ci aiuti a credere che le giornate, a volte, possano anche stupirci ed essere migliori delle nostre aspettative, andando al di là di ogni nostro scetticismo.” 

L’autrice, dopo aver fissato l’obiettivo, ha posto le seguenti regole:
  1.      inserire il logo di Alice in Wonderland (che vedete sopra)
  2.      descrivere sei cose impossibili
  3.      nominare tutti i follower che volete


Riprendendo il filo del discorso, dopo aver letto quel raffinatissimo post mi sono sentita un po’ in imbarazzo. 
“Perché?” domanderete voi.
Perché son buoni tutti a parlare di argomenti veramente impossibili. Chi non sarebbe capace di scrivere: “vorrei che la malattia, la miseria, il dolore e la morte sparissero dal nostro pianeta”? Più o meno corrisponde alla quisquilia scodellata dall’ennesima Miss “Vattelapesca” di turno, nel momento in cui è previsto il suo “discorso” durante la cerimonia di premiazione.
Mentre, quando si esorta a riflettere sulla vera natura di noi stessi e di ciò che ci circonda – come ha fatto Ivano, spingendo il ragionamento verso “un ideale di auto-realizzazione cui tendere” – allora l’impossibile assume sfumature molto diverse, meno “impossibili”, proprio in quanto soggettive e forse proprio per questo, più delicate e profonde.

Per dirla tutta, lì per lì ho risposto con un fragoroso e piccato “non posso”, dopodiché mi sono mossa a spegnere il pc e ad abbandonare la scrivania.

Ma in quel preciso istante è accaduto qualcosa di inatteso.
Mentre stavo per alzarmi dalla sedia, le mie amiche a quattro zampe, le mie gatte – e i gatti, si sa, c’entrano sempre in qualsivoglia situazione ;-) – hanno iniziato a rincorrersi dietro le mie spalle attardandosi in un gioco, se vogliamo definirlo così, con il quale si sollazzano di tanto in tanto. Durante l’esuberante inseguimento (giusto per la cronaca, Kiki è uno scricciolo dispettoso e Pallina pesa ben sette chili) lo scaffale dei libri riceve un tale scossone che uno dei testi si sposta così tanto in avanti da cadere quasi a terra.

Volendo prender spunto dalla favola di Alice, poteri dire che quel libro ha svolto la funzione del Bianconiglio!

“Stringi e dicci di che si tratta!” mi sembra di sentirvi. ^_^


A -  L’OPERA CHE MI HA ISPIRATO



Chi preferisse saltare a piè pari questa parte per concentrarsi solo sul “meme” può passare al punto “B”.

L’opera in questione è un libretto di un centinaio di pagine pubblicato la prima volta nel 1948 da un professore tedesco di filosofia, certo Eugen Herrigel e si intitola Lo Zen e il tiro con l’arco (Adelphi, 1975). 

Ora, senza dilungarmi troppo, ma restando nell’ottica di dovervi fornire una spiegazione di senso, mi soffermerò su alcuni passaggi chiave.

L’autore, invitato nel 1924 a tenere corsi di filosofia all’Università del Tohoku, in Giappone e desideroso di approfondire lo studio del buddismo Zen, chiede a un collega di aiutarlo a entrare in contatto con un esperto del settore. Ma siamo nel 1924 e nessun occidentale prima di lui si era mai occupato di Zen, così, per tutta risposta, il collega interpellato gli consiglia di frequentare le lezioni di tiro con l’arco del celebre Maestro Kenzo Awa.
Herrigel accetta, seppure con molte perplessità, ma fin da subito rimane sorpreso: sarà il maestro a decidere se egli potrà accedere ai suoi insegnamenti, oppure no. Pian piano si ritrova immerso in una cultura tanto diversa dalla propria ad apprendere una sequela di gesti, apparentemente senza senso, che creano riflessioni, tanto inaspettate quanto profonde.
Tuttavia, l’impresa si rivela difficilissima.

La sua radicata attitudine al ragionamento lo induce a tentare un approccio, una postura e una tecnica differenti da quelli suggeriti dal Maestro e, ostinandosi in quei goffi tentativi non solo fallisce, ma si sente sempre più frustrato. I suoi gesti sono inefficaci, ma lo sono altrettanto le sue intenzioni: il Maestro insiste nel sottolineare quanto sia importante la forma che l’arco deve assumere nel momento del tiro e quanto sia altrettanto importante che il gesto venga compiuto senza che esso comporti alcuno sforzo fisico. Per la precisione le sue parole sono le seguenti:
Se l’arco è teso al massimo, allora esso racchiude in sé il Tutto (“Lo Zen e il tiro con l’arco”, p. 32)

Non riuscendo a svincolarsi dal retaggio occidentale di voler comprendere quel processo attraverso il ragionamento, egli continua a provare tensione in tutto il corpo: le spalle gli dolgono, braccia e mani si muovono a scatti e ogni volta, immancabilmente, la freccia non raggiunge il bersaglio.
Eppure il Maestro gli dimostra che ciò che insegna è possibile: davanti all’allievo imbraccia l’arco, incocca la freccia, tende la corda mantenendo tutti i muscoli rilassati e il dardo vola centrando l’obiettivo. Tutto nella sua figura appare armonioso, bellissimo e soprattutto agevole. Ma non si limita a questo, fornisce altre preziose indicazioni:
Per tirare la corda lei non deve impiegare l’intera forza del suo corpo… Solo quando sarà capace di questo soddisferà a una delle condizioni per cui il tendere l’arco e lo scoccare la freccia diventano ‘spirituali’.”.

Dopo settimane e settimane di costante allenamento e continui fallimenti, il Maestro gli offre un altro aiuto:
“Lei non ci riesce perché non respira bene… Con questa respirazione lei non solo scoprirà l’origine di ogni forza spirituale, ma otterrà che quella sorgente scorra sempre più abbondante e si diffonda attraverso le sue membra tanto più facilmente quanto più lei sarà rilassato” (“Lo Zen e il tiro con l’arco”, p. 36)

Trascorrono i mesi e Herrigel, per scusarsi dei propri fallimenti, fa osservare al Maestro quanto i propri sforzi non diano alcun giovamento. Ed ecco la replica:
“È appunto perché lei si sforza, perché ci pensa. Si concentri esclusivamente sulla respirazione, come se non avesse altro da fare.” (“Lo Zen e il tiro con l’arco”, p. 38)

Il filosofo si persuade che il segreto per centrare il bersaglio consiste nel regolare la respirazione. Trascorre un anno continuando ad allenarsi su essa e così facendo riesce a tendere l’arco con potenza e al tempo senza fatica. Ma giunge il momento di esercitarsi sul tiro. Non basta saper tendere l arco se poi non si fa scoccare la freccia. Ed ecco l’ulteriore insegnamento:
“Il colpo fila liscio solo se sorprende il tiratore stesso.” (“Lo Zen e il tiro con l’arco”, p. 44).

Seguono altri mesi di infruttuoso esercizio e un altro ammonimento prezioso per condurlo a prendere coscienza di come l’iper-intenzionalità, anziché potenziare l’efficacia e favorire la realizzazione del risultato, finisca con l’alterare il naturale corso delle azioni, rendendole per ciò stesso inefficaci:
“Il tiro giusto nel momento giusto non viene perché lei non si stacca da esso. Lei non è teso verso il compimento, ma attende il proprio fallimento… La vera arte è senza scopo e senza intenzione! Quanto più lei si ostinerà a voler imparare a far partire la freccia per colpire sicuramente il bersaglio, tanto meno le riuscirà l’una cosa, tanto più si allontanerà dall’altra. Le è d’ostacolo una volontà troppo volitiva. Lei pensa che ciò che non fa non avvenga.” (“Lo Zen e il tiro con l’arco”, p. 46 e 47).

Colpito nell’orgoglio l’allievo domanda cosa fare e il Maestro risponde:
“Imparare la giusta attesa… Staccandosi da se stesso, lasciandosi dietro tanto decisamente se stesso e tutto ciò che è suo, che di lei non rimanga altro che una tensione senza intenzione”. (“Lo Zen e il tiro con l’arco”, p. 48).
Riflettendo su questa frase scorge il senso di ciò che stava cercando nello Zen: la liberazione da se stessi si trova sulla via che conduce al vuoto, al distacco. Dando per scontato di aver già compiuto il primo passo, con il rilassamento fisico, immagina di poter far partire correttamente il colpo soltanto concentrandosi sulla respirazione: concentrazione e respirazione per raggiungere il vuoto 

Ma Herrigel continua a usare solo la mente, perciò non cogliendo il senso degli insegnamenti, fallisce ancora:
“Smetta di pensare… Eppure è così semplice. Una comune foglia di bambù può insegnarle di cosa si tratta. Sotto il peso della neve si piega in giù, sempre più in giù. E a un tratto il carico di neve scivola via senza che la foglia si sia mossa.” (“Lo Zen e il tiro con l’arco, p. 65 e 66).

Dopo ben quattro anni di lezioni di tiro con l’arco, senza centrare il bersaglio, torna con la mente alle tecniche acquisite in passato per saper usare la pistola. Convinto di aver intrapreso la strada giusta, si esercita con le vecchie teorie, finché un giorno decide di metterle in pratica durante una lezione. Scocca una freccia con un tiro senza inceppamenti, centra perfettamente il bersaglio, ma il Maestro, dopo avergli fatto ripetere l’esercizio, gli sottrae l’arco e gli gira le spalle. L’allievo non è più degno delle sue lezioni perché ha tradito se stesso. Riprenderà il corso, ma a una condizione: deve impegnasi a distaccarsi dall’Io:
“Lei non riesce nemmeno a continuare a imparare senza chiedersi continuamente: ce la faro?... Quando lei sarà veramente distaccato dall’Io potrà interrompere in qualsiasi momento”. (“Lo Zen e il tiro con l’arco, p. 70)

Trovandosi spiazzato, rinuncia a porgere altre domande, vive alla giornata e anche gli sforzi compiuti con tanta dedizione diventano indifferenti. Le lezioni procedono, ma in lui è cambiato qualcosa: il Maestro lo ha portato al distacco. 
Proprio allora i suoi colpi iniziano a staccarsi “come un frutto maturo”. Anche il tempo è maturo perché egli smetta definitivamente di cercare di comprendere con l’intelletto fenomeni incomprensibili eppure reali:
“… il ragno danza la sua rete senza sapere che ci siano mosche che vi si impiglieranno. La mosca danzando spensierata in un raggio di sole, s’impiglia nella rete senza sapere cosa l’attende. Ma attraverso l’uno e l’altra ‘Si’ danza, e in quella danza interno ed esterno sono una cosa sola. Così l’arciere colpisce il bersaglio senza aver mirato esternamente.” . (“Lo Zen e il tiro con l’arco, p. 78).

Dopo anni e anni l'allievo scioglierà l’enigma e contestualmente inizierà a centrare il bersaglio con la freccia, adottando l’approccio corretto.

La lezione è la seguente: la lotta dell’arciere mette in gioco tutta la vita dell’arciere perché essa “consiste nel fatto che il tiratore mira a se stesso – eppure non a se stesso – e ciò facendo forse coglie se stesso – e anche qui non se stesso – e così è insieme miratore e bersaglio, colui che colpisce e colui che è colpito… l’arte diventa senz’arte, il tiro un non-tiro, un tiro senz’arco né freccia; l’insegnante ridiventa allievo, il maestro un principiante, la fine un principio e il principio un compimento.”. (“Lo Zen e il tiro con l’arco”, p. 19 e 20).

Il tiro con l’arco, dunque, non mira a conseguire qualcosa di esterno, ma d’interno. Arco e freccia sono un mezzo e non un fine. Non è la volontà di colpire il centro a guidare la freccia verso il bersaglio, bensì la capacità dell’arciere di “lasciar cadere ogni intenzione”, dedicandosi con spirito fermo e determinazione a penetrare ogni aspetto della tecnica, applicando quella “tensione senza intenzione” che renderà il tiro perfetto.
Chi intraprende questa strada deve superare e lasciar dietro di sé tante cose per incontrare finalmente la verità. Tante volte sul suo cammino egli sarà tormentato dal desiderio di cercare l’impossibile:
“Eppure viene il giorno in cui questo impossibile diventa possibile, anzi persino ovvio.” (“Lo Zen e il tiro con l’arco, p. 24).


B - LE MIE SEI COSE “IMPOSSIBILI”



UNO: Prender spunto da questo libretto per ricordarmi ogni giorno che tutto dipende da me e non dagli altri. Concentrarmi a far emergere il meglio delle mie energie (anziché sperare nel sostegno esterno) mi permetterà di trasformare il mio mondo interiore per agire su quello esteriore.

DUE: Come il Maestro insegna a Herrigel che non è la volontà di colpire il centro a guidare la freccia verso il bersaglio, bensì la capacità dell’arciere di “lasciar cadere ogni intenzione”, anch’io aspiro a stabilire ciò che desidero, senza fantasticare,  senza farmi scoraggiare dagli eventi, senza permettere loro di ossessionarmi, senza cercare di piegarli verso una direzione più favorevole, ma semplicemente mettendomi in gioco. Quindi, escludendo qualsivoglia atteggiamento di fatalismo rassegnato o rinunciatario, scelgo di tenere sempre i piedi a terra, analizzare ciò che mi circonda, prendere decisioni con consapevolezza, anche evitando di concedere favori a chi non li merita.

TRE: Così come la lotta dell’arciere è la lotta per la vita, anch’io desidero ricordarmi tutti i giorni che se voglio ottenere qualcosa devo sfidare me stessa, con il sorriso sulle labbra. Sforzarsi di superare i propri limiti non significa trasformarsi in super-eroi, ma abbattere pregiudizi e oltrepassare le barriere da noi create nella vita quotidiana ;-)

QUATTRO: Riflettendo  sulla condizione che ciascuno avrà sperimentato in vita sua durante uno stato di ansia da anticipazione, quando un evento futuro (peraltro solo probabile e non certo) appare così reale da scatenare reazioni emotive, psichiche e fisiche che solo il verificarsi di quello stesso evento giustificherebbe, mi sono posta una domanda. Dove ci troviamo realmente in quel frangente? Dov’è il nostro essere cosciente? La risposta è: da nessuna parte; e se non siamo da nessuna parte, allora semplicemente non siamo. O meglio, siamo in un sogno che nemmeno possiamo cambiare, ma solo subire. Il mio quinto punto, che si lega a doppio filo alla situazione contingente sia pubblica che privata, è dunque il seguente: se non ci piace ciò che vediamo intorno a noi, non agitiamoci, non facciamo mille ipotesi per nulla. Invece, svegliamoci e distinguiamo ciò che è reale da ciò che è solo ricordo, proiezione, immaginazione. In pratica, prendiamo coscienza delle cose per non lasciare che peggiorino e passiamo all’azione con un gesto alla nostra portata che sarà mirato a cambiare il qui e ora!

CINQUE: Un’altra delle cose a cui aspiro, senza dubbio, è non dimenticare che gli ostacoli sono anche opportunità. Chi non si è mai trovato a maledire gli imprevisti? Ma serve a qualcosa? Secondo me, no. È molto più utile sfruttarli per motivarci ancora un po’ tirando fuori qualità sopite, tanto più che se tentiamo di accantonarli la vita ce li metterà di fronte di nuovo, finché non ci decideremo a rivedere alcuni nostri errori. È dura, eh? Infatti rientra nell’elenco delle cose “impossibili”!

SEI: Eccomi all’ultimo punto, che poi ultimo non è. Partendo dall’idea che lamentarsi non porti mai da nessuna parte, aspiro ad allontanarmi da ciò che mi fa star male, sia abbandonando chi mi cerca soltanto per scaricarmi addosso lamentele, paure e giudizi negativi su ogni cosa, senza apportare mai nulla di positivo nella mia vita (quelle che il Dalai Lama definisce “persone tossiche”)  e sia prendendo le distanze da situazioni che, alimentando rabbia e rancore (non sto parlando di indignazione, cosa assai diversa e più nobile), mi spingono a prendere decisioni sbagliate.  


C - LE MIE NOMINE

Tutti quelli che hanno voglia di partecipare al tag sono liberi di farlo. Buon lavoro! :-)


Fonti bibliografiche e iconografiche:

Eugen Herrigel, Lo Zen e il tiro con l’arco. Adelphi, 1985
L’immagine del libro è tratta da https://www.adelphi.it/libro/9788845901775
L’immagine di Alice e il Bianconiglio proviene da http://www.movieforkids.it/cinema/alice-nel-paese-delle-meraviglie/2785/



  

sabato 17 febbraio 2018

Emmeline Goulden Pankhurst, una vita per le donne - Prima parte




Eccomi con questo guest post sul blog della mia carissima amica Cristina Cavaliere, Il Manoscritto del Cavaliere, per parlarvi ancora di donne e diritti, attraverso la ricostruzione della vita di una signora decisamente molto coraggiosa.



 



Vi aspetto numerosi! ^_^



lunedì 12 febbraio 2018

La donna nel XIX secolo – 6




Bentornati!
Mi sono fatta attendere un po’, scusate. Sono in ritardo con la “tabella di marcia” e con la consultazione dei contenuti degli amici blogger, a cui chiedo perdono, in questo periodo sono capitate tante cose inaspettate che mi hanno tenuta lontana dalla rete…
Ma eccomi di nuovo in “pole position” per riprendere la serie dedicata alla Donna nel XIX secolo
Chi desiderasse recuperare i post precedenti può cliccare semplicemente QUI e verrà reindirizzato sulla pagina che ospita tutti i link agli articoli finora editati.


domestiche inglesi nell'Inghilterra del XIX secolo


Prima di affrontare la storia dei movimenti che hanno aiutato le donne a ottenere il diritto di voto – conquista realizzata in ogni parte del pianeta solo nel corso del 1900 – ho scelto di soffermarmi ancora una volta sul tema della donna lavoratrice, in occidente e nel XIX secolo.
Ciò che mi preme sottolineare è che il traguardo del diritto di voto, a cui si faceva riferimento nell’ultimo post della serie, è il risultato di un percorso lunghissimo attraverso la trasformazione della condizione della donna, del suo ruolo e dell’immagine  della donna, nell’Ottocento e nel Novecento.
Quindi, insistere sulle condizioni del mondo del lavoro in quel periodo e soffermarsi a riflettere sull’inquadramento, sociale e giuridico della donna in quanto lavoratrice, è molto importante per comprendere la portata del conseguimento di quel diritto. E, permettetemi di aggiungere, anche per porci una riflessione sull’attualità, con i suoi scoraggianti risvolti di disoccupazione che colpiscono i giovani e soprattutto le donne…

Parlando di suffragio femminile, infatti, non possiamo dimenticare i sacrifici – talvolta anche della stessa vita – le vessazioni e il disprezzo che le donne impegnate in questa lotta hanno subito.  
La conquista dell’uguaglianza giuridica e la parità dei diritti passano attraverso un cammino irto di ostacoli che si svolge in un periodo di trasformazioni epocali, a partire dal fenomeno dell’industrializzazione che consente l’accesso di migliaia di donne nel mercato del lavoro.

Per chiarezza, anticipo che i temi di rivendicazione delle femministe di tutto il mondo occidentale sono molteplici (il diritto; l’educazione e la formazione, che passano comunque attraverso l’acquisizione e il riconoscimento delle competenze professionali; la questione del corpo; la morale;…). Oltre a tutti questi argomenti il tema del lavoro, senza dubbio, gioca un grande ruolo nell’emancipazione femminile.

Questo non significa che le donne abbiano iniziato a entrare nel mondo del lavoro solo a partire da quest’epoca. Le donne hanno sempre lavorato, in tutte le epoche, ma esiste un contrasto netto tra il mondo preindustriale, in cui il lavoro femminile era informale e spesso non remunerato, e il mondo industrializzato della fabbrica, che richiedeva personale salariato e disponibile a rimanere a tempo pieno lontano da casa.

Donna americana del XIX secolo
Nel XIX secolo, questo è il punto, la donna lavoratrice (non importa se si trattasse di un’operaia, di una cucitrice, di una scrittrice, di una ragazza indipendente, di una madre, di una vedova, o della moglie di un operaio disoccupato) viene a rappresentare un problema. Un problema che coinvolge il significato stesso di femminilità e la compatibilità fra femminilità e salario.
Le domande che quella società sollevava erano ovunque le stesse: una donna dovrebbe lavorare per un salario? Qual è l’impatto del lavoro salariato sul corpo della donna? Qual è l’impatto del lavoro salariato sulla sua capacità di adempire i ruoli di madre e di moglie? Qual è il genere di lavoro adatto a una donna?
Le discussioni partirono dall’idea che, mentre nel periodo preindustriale le donne avessero combinato con successo l’attività lavorativa e la cura dei figli, il mutamento del luogo di lavoro (la fabbrica per l’operaia, la casa dei borghesi per le domestiche e le istitutrici, il negozio in città per la campagnola, …) rendeva difficile, se non impossibile questa combinazione.

Come prima conseguenza si sostenne che le donne dovessero lavorare (in modo salariato) solo per brevi periodi della loro vita, e dovessero ritirarsi una volta sposate o dopo la nascita del primo figlio. In questo modo si ritenne che le donne fossero prive di spinte alla carriera e che, pur di tenersi il posto per quel poco che veniva loro concesso, avrebbero lavorato con salari minimi: salario fisso e nessuna opportunità di avanzamento.

La seconda conseguenza fu che alle donne vennero assegnati solo lavori non specializzati e mal pagati. Pertanto, il lavoro femminile veniva inteso sempre e solo come lavoro di scarso valore.

La terza conseguenza fu che, in tutti i settori industriali, gli imprenditori, forti di queste argomentazioni, decisero di inserire le donne nelle loro aziende per risparmiare sul costo del lavoro. 

La quarta conseguenza fu che le confederazioni maschili di mestiere – per esempio l’ordine dei panettieri, o l’unione dei rilegatori di libri – chiusero molto spesso l’ingresso alle donne, o posero condizioni irraggiungibili al loro ingresso.

Orbene, una delle sedi in cui si andò svolgendo il discorso sulla divisione del lavoro e la relativa remunerazione è l’economia politica. Gli economisti del XIX secolo, seppure esistessero importanti differenze tra le diverse nazioni, così come esistessero scuole di economia politica differenti, si trovarono tutti d’accordo su due punti:
  • a)     il salario dell’uomo doveva essere sufficiente, non solo per il suo mantenimento, ma anche per sostenere la sua famiglia.
  • b)    Il salario di una moglie, al contrario, “tenendo conto della cura che essa deve avere dei figli” doveva essere appena sufficiente al suo mantenimento. Anzi, per alcuni economisti, ciò non sembrava nemmeno necessario.

Per esempio, l’economista francese Jean Baptiste Say, sosteneva che i salari delle donne avrebbero dovuto essere mantenuti sempre sotto il livello della sussistenza, perché tanto le donne avrebbero sempre potuto contare sulla famiglia. Per questo motivo le donne sole, zitelle o vedove che fossero, dovevano necessariamente essere povere.
Secondo queste teorie, gli unici responsabili della progenie erano gli uomini.

Un altro elemento importante nel quadro che si andò a dipingere in tutta l’Europa del XIX secolo riguardava il ruolo dei sindacati.
La maggior parte dei sindacalisti uomini cercarono di proteggere il loro lavoro e il loro salario tenendo le donne lontano dalla loro attività e, se possibile, lontano anche dal mercato del lavoro, in generale. Quando dovettero accettare che il salario femminile dovesse essere più basso di quello maschile, trattarono le lavoratrici come una minaccia.
Tutti i sindacalisti del XIX secolo, inglesi, francesi, tedeschi, eccetera concordavano sul fatto che i membri del sindacato avevano il dovere, come mariti e come uomini, di tenere le donne nella sfera domestica, la “loro sfera naturale”. Da tutti i fronti sindacali europei si levò un coro di elogio della casalinga, altresì vennero invocati studi medici e scientifici che sancissero, in modo inequivocabile, che le donne non erano fisicamente capaci di fare il lavoro degli uomini e vennero sostenuti discorsi sulla pericolosità del lavoro per la salute e la moralità della donna.

tabacchine di Rovigno, 1882
Esistevano, ovviamente, anche sindacati che accettavano le donne all’interno dell’organizzazione, ma solo nei settori in cui le donne rappresentavano una porzione rilevante della forza lavoro (es.: nel settore tessile, nella lavorazione del tabacco e nell’industria calzaturiera). Tuttavia, anche in questi casi, il sindacato nazionale proibiva alle donne l’adesione a scioperi e manifestazioni. Intanto, va detto che lo sciopero era considerato un’azione virile, ma soprattutto vanno evidenziati alcuni passaggi chiarificatori. La donna che scioperava veniva ritenuta intollerabile dai padroni, che si aspettavano sottomissione; diventava fonte di disappunto per la famiglia, faceva  scandalo nell’opinione pubblica, poiché uscire dalla fabbrica per una donna equivaleva a comportarsi come prostitute.
Solo in certi casi si costituirono delle associazioni femminili, che per la natura stessa della loro composizione venivano considerate marginali (anche se contavano migliaia di membri).

Pertanto, segregata nelle occupazioni femminili, raggruppata nei sindacati femminili, la situazione delle donne si trasformò nell’ennesima dimostrazione della necessità di ristabilire differenzenaturali” tra i sessi.

A dare il colpo di grazia furono i legislatori che, nel corso del XIX secolo, negli Stati Uniti e in tutta l’Europa Occidentale, per rispondere alle pressioni dei vari collegi elettorali, intervennero a più riprese per regolamentare le pratiche di assunzione nel settore manifatturiero.

operaia italiana di un'azienda bellica. 1914
Anzitutto, va ricordato che le donne, non essendo cittadine e non avendo accesso al potere politico, erano considerate vulnerabili e bisognose di protezione.
Il tema della vulnerabilità e del conseguente bisogno di protezione fu fondamentale per la costruzione di una tesi difficilissima da demolire:
  • a)     il loro corpo era più fragile di quello degli uomini e, per questa ragione, non avrebbero dovuto lavorare per molte ore;
  • b)    l’impiego le distoglieva dai compiti domestici;
  • c)     i lavori notturni le esponevano a rischi di aggressioni sessuali (sul luogo di lavoro, sulla strada dall’abitazione e lavoro e viceversa);
  • d)    lavorare al fianco degli uomini, o sotto la supervisione degli uomini, metteva in pericolo la loro moralità;
  • e)     il lavoro guastava gli organi di riproduzione, rendendole inadatte a generare e allevare bambini in buona salute.

Alle femministe che provavano a negare di aver bisogno della protezione maschile, i legislatori e i rappresentanti dei lavoratori rispondevano che, dal momento che le donne erano escluse dalla maggior parte dei sindacati maschili e che si erano dimostrate incapaci di organizzarsi in un proprio sindacato, avevano bisogno del sostegno di una forza molto potente (che non poteva essere altro che maschile).
In sostanza, la cosiddetta legislazione protettiva venne messa a punto per offrire agli uomini inseriti nel mercato del lavoro (datori di lavoro e lavoratori) una soluzione al problema della presenza delle lavoratrici.
Tradotto in parole poverissime (abbiate pietà), le donne dovevano consentire agli imprenditori di risparmiare sul costo del lavoro, concedere ai mariti un contributo aggiuntivo, ma non dovevano permettersi di montarsi la testa con idee stravaganti (di avanzamento di carriera, di parità di diritti, di parità di salario, …) perché la loro “naturale destinazione”, in quanto femmine, era la casa e l’accudimento della famiglia. Non a caso le operaie di città vennero doppiamente rifiutate: come donne, poiché in antitesi con il concetto di femminilità; come lavoratrici, perché il loro salario, per legge inferiore a quello dell’uomo, veniva considerato una “capricciosa” integrazione del bilancio familiare.

Florence Nightingale, infermiera britannica
diede vita all'assistenza infermieristica moderna
Va anche detto, però che, nel corso di quel secolo, si crearono inediti spazi professionali anche al di là del territorio industriale. Per esempio,  il servizio domestico, che un tempo era appannaggio degli uomini, diventò sempre più un lavoro femminile, guarda caso, svalutato. Le grandi città europee assorbirono dalla campagna (dove la crisi rurale si intensifica) le giovani ragazze che, in quel modo, potevano contare sulla possibilità di guadagnare qualcosa e imparare i rudimenti di istruzione per tentare la scalata sociale.
Le domestiche, inoltre, risultarono altamente coinvolte nei consumi e nelle pratiche urbane e furono loro a far conoscere le mode cittadine alle donne rimaste in campagna. 

Nacque anche una nuova gerarchia, quella delle governanti e delle istitutrici. Spesso si trattava di soggetti provenienti da famiglie borghesi modeste, figlie di pastori o di piccoli funzionari, oppure di orfane o giovani appartenenti a famiglie numerose. La governante era una signora che insegnava a domicilio, spesso ospite della famiglia per la quale lavorava e che, per la sua stessa origine, non poteva trovare solidarietà né presso i datori di lavoro né presso gli altri domestici. I romanzi delle sorelle Brontë e di Jane Austen sono pieni di riferimenti a queste figure…

Jane Austen
Governanti, istitutrici, infermiere, commesse delle poste, assistenti sociali, spiccarono come nuove identità lavorative che aspiravano a un tenore di vita intellettuale e sociale più alto della media delle donne “del popolo” e che per salire anche pochi gradini della scala sociale non avevano altra scelta che quella di restare nubili. Ma la scelta di rimanere nubili, oltre a pesare notevolmente in termini di solitudine, le esponeva anche al rischio di venir percepite come intriganti seduttrici. 

Matilde Serao, 1890, RadioCorriere

I testi di Matilde Serao sono efficacissimi nel restituire una fotografia puntuale, spietata e veritiera di quelle atmosfere. 

Collegandomi alla Serao, vorrei ricordare che, verso la fine del 1800, in molti paesi (Inghilterra, Francia, Germania, USA, Olanda, Finlandia, Italia) nacque un’ulteriore figura professionale, molto meno diffusa delle precedenti (sia chiaro), ma capace di catalizzare l’opinione delle donne e differenziare le posizioni femministe: la giornalista.

Di fatto, man mano che sorsero nuove associazioni femministe, si sviluppò una stampa autonoma che, nella maggior parte dei casi, ebbe vita beve ma rivestì un’importanza fondamentale per sottrarre dall’oblio la questione di genere: questa figura offrì alle signore la grande opportunità di confrontarsi sui punti nodali delle loro rivendicazioni.

Caroline Remy, in un quadro di Renoir
La prima donna giornalista che riuscì a vivere del proprio lavoro fu una parigina che scriveva su La Fronde, un quotidiano fondato nel 1897 da Marguerite Durand e trasformato in mensile nel 1903. Si chiamava Caroline Remy, era nota come Sévérine.

il giornale diretto da Emily Davis
Nell’Inghilterra del 1859 Emily Davis scriveva sul English Womens’s Journal e negli Stati Uniti del 1868 Susan Anthony, leader del movimento suffragista, scriveva su The Revolution. Il suo giornale mirava a promuovere il diritto al suffragio delle donne e degli afroamericani, ma si occupava anche di molti altri temi sociali, come il diritto ad un salario equo, leggi più liberali per il divorzio e la posizione della Chiesa sulle questioni femminili.

la testata americana di S.B. Anthony, The Revolution

Susan B. Anthony e Elisabeth Cady Stanton
In Germania, nel 1891, la esponente socialista e combattente per i diritti delle donne, Clara Zetkin, conversava con le tedesche attraverso la testata Arbeiterin, mentre negli USA Amelia Bloomer, nel 1849, redigeva articoli magnetici su The Lily

Clara Zetkin

In Italia, oltre a Matilde Serao, che a Napoli, tracciava un ritratto a tinte forti della realtà femminile, nella Milano del 1868 troviamo Anna Maria Mozzoni, la quale dava vita a una rivista cosmopolita, invitando le lettrici a seguire l’attualità femminista all’estero. La rivista si chiamava La donna e divenne la tribuna dalla quale tante brave giornaliste si batterono per il diritto all’istruzione femminile. La Mozzoni fu anche autrice de La donna e i suoi rapporti sociali, considerato il manifesto del femminismo italiano.
Come loro ve ne furono anche altre, che non ho citato per evitare di creare un “effetto lista”. Ciò che conta è che questi giornali si trasformarono in tante sedi di associazioni culturali femministe nelle quali venivano offerte le indicazioni di uno stile di vita.  

Anna Maria Mozzoni
In conclusione, ciò che ho voluto mettere in luce è che la lotta a favore di un accesso al mondo del lavoro ha gettato le premesse per la conquista di un’autonomia economica legata a doppio filo con la rivendicazione, da parte dei tanti movimenti femministi nati nel XIX secolo, di molti altri diritti. 
Riflettendo sugli obiettivi del passato, non posso però esimermi dal fare considerazioni su ciò che oggi vedo intorno a me. La mia impressione è che, sebbene le donne europee continuino a entrare nella forza lavoro in gran numero, la parità di genere in talune zone sembra essere più di facciata che di sostanza. Inutile dire che mi sto riferendo all’Italia, paese nel quale la difficoltà nel conciliare il lavoro con la famiglia rimane uno zoccolo duro e nel quale, da decenni, si è favorito (o se preferite, non si è fatto nulla per impedire) un massiccio accesso femminile all’occupazione temporanea, instabile e incerta. Per effetto di tutto ciò, intere generazioni, madri e figlie, si confrontano con un precariato che, di fatto, impedisce loro la progettazione del futuro. Dove si sia verificata la frizione che ha bloccato il motore della grande macchina dell’emancipazione, non lo so. Mi vien da dire che, forse, abbiamo abbassato la guardia troppo presto…

Prima di porvi, com’è consuetudine, delle domande sull’argomento trattato, permettetemi di ricordarvi che sabato 17 febbraio, su Il Manoscritto del Cavaliere uscirà la prima parte di un mio guest-post dedicato a una delle figure più importanti della lotta per i diritti delle donne inglesi: Emmeline Goulden Pankhurst.
Non mancate all’appuntamento, mi raccomando!

E ora, vi chiedo gentilmente di raccontarmi cosa vi ha colpito di più e perché.

Vi auguro una bella settimana e vi abbraccio! :)


N.d.R.: tutte le immagini presenti nel post sono state tratte da Wikicommons


FONTI BIBLIOGRAFICHE:
Joan W. Scott, La donna lavoratrice nel XIX secolo, in Storia delle donne. L'Ottocento, Laterza, Bari, 1991
Célibat et âge au mariage aux XVIIIe et XIXe siècles en France. II. Age au premier mariage – articolo di Louis Henry e Jacques Houdaille, pubblicato sul n° 2 della rivista Population, nel 1979  

Wikipedia e Enciclopedia Treccani, per le ricerche su: Matilde Serao, Caroline Remy, Emily Davis, Susan Anthony, Clara Zetkin, Amelia Bloomer, Anna Maria Mozzoni