lunedì 30 aprile 2018

La donna del XX secolo 2: consumo e cultura di massa al femminile






“Donne – tu du du – in cerca di guai”… torniamo a parlare di questioni femminili legate al XX secolo. 


Max Beckmann, Quappi in pink jumper, 
1934, Museo Nacional Thyssen Bornemisza
Madrid
Rispetto all’ultimo post di questa rubrica (lo trovi QUI ) faremo un passo indietro. 
Considerando la vastità dei temi che permeano la storia dell’emancipazione delle donne, capiterà ancora di procedere a passi di formica, di leone e anche, come in questo caso, di gambero. Lo sopporterete? Spero di sì, anche perché purtroppo mi è difficile muovermi diversamente!

Dunque, se vorrete seguirmi, vi condurrò indietro nel tempo, all’inizio del Novecento, per poi scivolare in avanti fino agli anni 40, e lo farò per toccare alcuni punti fondamentali e funzionali alla comprensione di ciò che avverrà nei decenni successivi. Il primo passaggio che affronteremo in tal senso sarà quello della trasformazione delle donne in masse che prende luogo prima di tutto negli Stati Uniti. 

Che cosa significa?
Significa che, entrando nel Novecento, in paesi come gli Stati Uniti si comincia a insistere sull’esigenza di apportare modifiche e uniformazione agli aspetti cruciali della donna. Sempre la solita storia, no? Bene, in questo caso vedremo che tutto questo ha a che fare con la cura della casa e della persona fisica.

Avevamo già visto la donna entrare nelle fabbriche. Ora, però, la sua capacità di razionalizzare il lavoro domestico, come tempo e come rendimento, viene pian piano spostata nella produzione extra domestica e l’occhio vigile e attento della dirigenza maschile ne rimane colpito al punto da prefigurarne nuovi scenari. Da lì a poco politici e industriali concordano su un punto: anche il funzionamento della casa necessita di essere assimilato e integrato all’organizzazione dell’intera società. Così, a partire dal 1920 si assiste a un’offerta di elettrodomestici e attrezzature varie, senza precedenti, che viene indirizzata alla donna. Giusto per non perdere la bussola, vi ricordo che ci troviamo all’inizio del ventennio del “proibizionismo”. Qual è il disegno nascosto? Semplice: la casalinga americana deve diventare sia consumatrice che amministratrice della casa. Non c’è scampo. 

Cotton Club di New York, foto del 1927
Per raggiungere lo scopo, essa viene responsabilizzata a controllare il consumo della propria abitazione e a organizzare e pianificare, accuratamente, i processi familiari. Sempre in quest’ottica, nascono le vendite a rate e i progetti di lunga durata, affinché l’intera popolazione possa accedere ai nuovi indispensabili beni di consumo!   

In men che non si dica i grandi magazzini americani si trasformano in un nuovo spazio pubblico che, guarda un po’, sembra creato apposta perché le donne lo vivano come un luogo di ricreazione e socialità, non solo di consumo – sia chiaro. In questo spazio esse potranno rivestire alcuni ruoli di autorità, sia in veste di acquirenti che di capisettore. Ecco che inizia a delinearsi una nuova cultura di massa.
Siccome le ambizioni sono alte, alla donna americana viene richiesta anche un’apparenza fisica particolarmente accurata. Per cui si procede con la ridefinizione dell’ideale di femminilità. A tale scopo l’industria cosmetica e quella dei vari prodotti igienici si fanno trovare pronti a scodellare ogni genere di proposte.

Ottobre 1924, pubblicità,
Museum Modern Art Library
Così, ispirandosi al motto “la bellezza può essere raggiunta da tutte le donne, se si impegnano sufficientemente” – vi prego di notare la finezza della sottolineatura sull’impegno – inizia il processo di uniformazione dell’aspetto femminile. 

Ma, attenzione: un simile processo sottintende non solo una trasformazione esteriore, bensì anche interiore, e infatti le varie case cosmetiche di quegli anni ruotano costantemente intorno all’idea che sapersi truccare significa “trovare se stesse”.

Pertanto, nel 1921 sul mercato statunitense appare il primo assorbente Kottex, seguito a raffica da una miriade di altri prodotti. Bisogna anche aggiungere che l’industria cosmetica americana di quegli anni guarda anche alle donne di colore, il cui successo personale viene fatto dipendere – ta dam – da capelli stirati e pelle schiarita. 

Annuncio pubblicitario assorbenti Kottex
Ladies Home Journal, 1930, Cambridge
Del resto, c’è poco da meravigliarsi, se si tiene in considerazione che in quegli stessi anni si consumavano i peggiori crimini messi a punto dal movimento Ku Klu Klan.


Assemblea del KKK, 1920 circa
Ma un simile processo di trasformazione non può stare in piedi senza l’ausilio di una oculata concertazione di vari mezzi di comunicazione. 

Entrano quindi in gioco i periodici, la pubblicità e, soprattutto, il cinema.
A quest’ultimo viene assegnato il compito di rafforzare la “cultura della bellezza”. Tra il 1920 e il 1930 gli studi di Hollywood sfornano decine e decine di immagini femminili di grande carisma. Il divismo hollywoodiano diventa anche l’anello principale della trasmissione dei modelli statunitensi nell’Europa a cavallo delle due guerre. Non c’è nulla di meglio di un film per offrire pratiche lezioni di moda, trucco e comportamento. 

Mary Pickford, uno dei modelli
femminili dei film americani
in voga nel 1920
Mentre lasciamo in sospeso l’America che, nel 1929, viene segnata dal tragico crollo della Borsa di Wall Street da cui ebbe inizio la Grande Depressione che sconvolse l’economia mondiale, guardiamo cosa accadde nel vecchio continente.


Annuncio del crollo di Wall Street in una testata del 1929
In Europa, in conseguenza ai grandi cambiamenti economici e di consumo indotti dalla prima guerra mondiale, i processi di trasformazione del lavoro domestico e dell’immagine femminile erano già in corso.

In Francia, per esempio, tra il 1927 e il 1932 viene introdotta l’elettricità in tutte le case e l’estensione del gas. Questo fenomeno si affianca al bisogno crescente di semplificare le mansioni domestiche delle donne borghesi che tendono a cercare un lavoro fuori casa.

Roland Toutain e Nora Gregor inLa regola del gioco
di Jean Renoir, 1939
Tra gli anni ’30 e ’40 a Parigi si affaccia un nuovo stile di vita che include un’inusitata attenzione all’igiene domestica e un radicale cambiamento delle abitudini alimentari: via via scompaiono dalle tavole i piatti tradizionali che richiedono lunghe e complicate preparazioni, per dar spazio a piatti più semplici e presto pronti, come le crudités e i formaggi. Sempre in questi anni si consolida il successo delle industrie dei cosmetici francesi.

Alba tragica, film di Marcel Carné, 1939
Sempre in Francia, nel 1939, il progresso tecnologico nelle case è limitato a pochi elettrodomestici, ma è già cambiata l’immagine della donna e, di conseguenza, sono già cambiati gli aspetti culturali fondamentali. La nuova francese è ora una donna che, anche la sera, appare sorridente attraente, sia nel vestiario che nel trucco.

A stimolare il cambiamento contribuisce in larga misura anche la stampa. Nel 1937, infatti, il nuovo periodico Marie Claire, che mette le cure di bellezza alla portata di tutte le francesi, anche le più disagiate, raggiunge il tetto di 800 mila copie vendute. La ragione di una così alta diffusione sta soprattutto nel basso prezzo che fa della rivista la “Vogue du pauvre”. In questo periodo vanno consolidandosi anche alcune forme tipiche dei mezzi di comunicazione di massa dedicati alle donne, come per esempio la “posta del cuore” e altre rubriche che ospitano discorsi autobiografici che lasciano trasparire il disagio di molte donne nel corso dei grandi cambiamenti. Perfettamente centrato su questi argomenti, Confidences, periodico femminile parigino, nel 1939 arriva a superare largamente il milione di compie vendute.

Copertina Confidences, marzo 1939
Ma questo periodo di fecondità creativa dura poco e viene interrotto nel giugno del 1940 con l’ingresso delle truppe tedesche a Parigi.

Nel prossimo post andremo a vedere cosa accadeva in Italia nello stesso periodo, tra le due guerre…

Cosa ne pensate?

Arrivederci a presto e a tutti un caro saluto!

Per chi fosse interessato a recuperare gli altri miei post sulle donne, ecco il link:





BIBLIOGRAFIA
Storia delle donne, Georges Duby e Michelle Perrot, Vol. V, Laterza, Roma-Bari, 1992, pp. 296-302.
The American Yawp, The new era, americanyawp.com
Cinematografia Francese, Enciclopedia Treccani

ICONOGRAFIA
De Chirico, Ritratto di Isa in abito nero, 1935, Fondazione G. e I. de Chirico, Roma
Dailymail.com, Cotton Club di New York in una foto del 1927
Americanyawp.com, pagina pubblicitaria dell’Ottobre 1924, Museum of Modern Art Library
Ladies Home Journal, annuncio pubblicitario assorbenti Kottex, 1930, Cambridge
Underwood and Underwood, Assemblea del KKK, 1920 circa, Washington,
Americanyawp.com, Mary Pickford in un film del 1920
Daylymail.com, Annuncio crollo di Wall Street
Wikipedia, scena del film La regola del gioco, di Jean Renoir, 1939
Wikipedia, scena del film Alba tragica, Marcel Carné, 1939
E-bay, copertina della rivista Confidences, edizione marzo 1939 

lunedì 23 aprile 2018

Il disagio, l’io e i rimedi



Ruota dell'esistenza ciclica - particolare



Chiarisco subito che non intendo affatto parlare di tutte le tipologie di disagio esistenti: sarebbe impossibile per varie ragioni.
Per farla breve, durante il week end mi è capitato di iniziare la giornata gettandomi direttamente in pasto alle news. In generale la considero una scelta scellerata, ma è accaduto. Sia chiaro, leggere e informarsi è sempre bene, ma non prima di aver indossato un necessario “giubbotto anti-proiettili”. Ognuno ha il proprio rimedio per  affrontare/contrastare  la gragnuola di obbrobrio e cattiveria che inevitabilmente viene scaricata addosso nel momento in cui esploriamo questo babelico mondo. Un universo disseminato di notizie serie mescolate a ciance, nel migliore dei casi mirate a destare scalpore, o addirittura tese ad accendere profondo disorientamento. Orbene, anch’io, come capirete a breve, ho un antidoto cui ricorro prima di avventurarmi in quei sentieri, o subito dopo, comunque sia lo uso sempre molto volentieri.

Dunque, sorseggiando il caffè, scorrevo articoli di vario tipo. Navigando tra titoli roboanti, immagini (o immaginette) “di plastica” usate a corredo persino dei resoconti più delittuosi, e in cui campeggiano esseri umani sorridenti, festosi e ammiccanti, allegorie degne della più colossale fiera delle vanità – tra l’altro, fateci caso, sono le stesse fotografie che ritroviamo passeggiando tra le tombe dei defunti al cimitero – mi sono ritrovata permeata da una sorta di lurida e viscosa pece che, una volta appiccicata addosso, ha principiato a sabotare le mie difese. Non riuscivo più a disfarmene. 

Sentendo crescere dentro un profondo sconforto man mano che proseguivo l’esperimento, ho abbandonato il campo e sono andata alla ricerca del mio “medicamento”. In pratica, ho ripescato un libro dallo scaffale e, se vi va, ve ne offro alcuni passaggi.
Tra poco capirete di cosa si tratta.

Inizio col dirvi che questo autore è solito dire “La mia religione è la gentilezza” e a me sta decisamente molto simpatico! Aggiungo che il libro è la trascrizione di una serie di conferenze tenute nel 1984 alla Camden Hall di Londra, durante le quali venne discusso il significato della vita, mettendo a fuoco le cause a monte della nostra situazione e lo scopo altruistico che possiamo dare alla nostra esistenza. Il tema principale, dunque, è la “mente di luce limpida”.
Il passaggio che sto per presentarvi si colloca all’interno di un discorso molto ampio attraverso cui, partendo dal postulato che l’ignoranza sia la radice del dolore e che l’odio (e la collera) sia il principale distruttore della nostra mente, si esaminano le diverse modalità per investigare i fenomeni dell’esistenza, toccando anche gli studi condotti nel campo della fisica e della neurologia.

Buona lettura ^__^

Da “Il senso dell’esistenza”, Dalai Lama, ed. BUR Saggi, 2006, pagg 58 a 62:

[…]Prendiamo per esempio il sé, o l’io. L’io è colui che controlla o usa, la mente e il corpo, e la mente e il corpo sono oggetti usati da quell’io. L’io, il corpo e la mente esistono certamente, e non si può negare che espletino le loro rispettive funzioni. L’io è come un proprietario, e corpo e mente gli appartengono. In effetti diciamo: «Oggi c’è qualcosa che non va nel mio corpo, e per questo sono stanco». Oppure: «Oggi il mio corpo è in forma: per questo mi sento come una rosa». Si tratta di affermazioni valide, ma rispetto a un braccio, per esempio, non c’è nessuno che dica: «Questo è l’io», eppure, quando duole un braccio diciamo immancabilmente: «Soffro, non mi sento bene». Nonostante questo è chiaro che l’io e il corpo sono distinti: il corpo è qualcosa che appartiene all’io.Nello stesso modo, parliamo della «mia mente», o della «mia coscienza», come quando avvertiamo: «Ho una memoria così debole. Qualcosa non va». Si può anche sentirsi in opposizione con la propria coscienza, con la propria memoria: non è forse vero? Diciamo cose del tipo: «Voglio migliorare l’acutezza della mia mente, voglio addestrarla», nel qual caso la mente è sia l’addestratore che l’oggetto dell’addestramento. Quando la mente è indisciplinata – non fa quello che vogliamo – siamo come i maestri o gli addestratori della mente e la mente è come lo studente indisciplinato che noi stiamo addestrando a fare ciò che vogliamo: la sottoponiamo a un addestramento per farla obbedire. Diciamo e pensiamo queste cose, ed esse concordano con i fatti.In questo modo, sia il corpo sia la mente sono cose che appartengono all’io, e l’io ne è il proprietario ma, a parte mente e corpo, non esiste nessuna entità separata e indipendente dell’io. Tutto sta a indicare che l’io esiste: eppure, a cercarlo bene, non si riesce a trovarlo.Per esempio, l’io del Dalai Lama deve trovarsi entro i confini di quest’area circoscritta dal mio corpo: non c’è nessun altro posto in cui lo si potrebbe trovare. Questo è certo, sicuro. Tuttavia, se si cerca all’interno di quest’area che cos’è il vero Dalai Lama, il vero Tenzin Gyatso, al di là del corpo e della mente l’io non ha sostanza propria. Però il Dalai Lama è un dato di fatto, un uomo, un monaco, un tibetano, qualcuno in grado di parlare, di bere, di dormire, di divertirsi: non è così? Questo è sufficiente a provare che una cosa esiste anche quando non la si riesce a trovare.Questo significa che, tra le basi di designazione dell’io, non si troverà nulla che illustri l’io e che sia l’io. Ma significa che l’io non esiste? No, niente affatto: l’io esite certamente, ma se esiste e tuttavia non può essere trovato tra le sue basi di designazione – che costituiscono il posto in cui deve esistere – è necessario dire che si instaura non per potere proprio, ma grazie alla forza di altre condizioni. La cosa si può postulare in un altro modo.Tra le condizioni in dipendenza delle quali esiste l’io, uno dei fattori principali è la concettualità che lo designa. Per questo si dice che l’io e altri fenomeni esistono attraverso il potere della concettualità. In questo modo, produzione condizionata giunge a significare non solo «prodotto dipendentemente da una base di designazione», ma anche «prodotto o designato dipendentemente da una coscienza concettuale che designa l’oggetto».Così nel termine «produzione condizionata», «condizionata» significa dipendente da, o che poggia su, altri fattori. Una volta che l’oggetto dipende da qualcos’altro, è privo della possibilità di essere per potere proprio – è privo della possibilità di essere indipendente. Pertanto è privo di natura indipendente. Ciononostante, non insorge in rapporto a certe condizioni. Il bene e il male, la causa e l’effetto, il sé  gli altri, tutti gli oggetti si instaurano in rapporto ad altri fattori, sorgono condizionatamente. Poiché sorgono condizionatamente, gli oggetti sono privi della grande possibilità di esistere per conto proprio. Inoltre, dato che in questo contesto di dipendenza sorgono ed esistono il vantaggio e il danno, non è che gli oggetti non esistano: le loro prestazioni e funzioni sono attuabili. In questo modo sono attuabili le cause e gli effetti delle azioni, in quanto alla loro base c’è l’io. Una volta capito questo, si è liberati dall’estremo della non esistenza, del nichilismo.Conseguentemente, esistenza dipendente dalla concettualità è un altro significato di produzione condizionata – il significato più elevato. Oggigiorno i fisici spiegano che i fenomeni non esistono solo obiettivamente dentro e per se stessi, ma esistono in termini di, o nel contesto di, una relazione con chi li percepisce, con l’osservatore.Ho la sensazione che l’argomento del rapporto tra materia e coscienza sia un punto su cui la filosofia orientale – in particolare quella buddhistica – e la scienza occidentale potrebbero incontrarsi. Credo che sarebbe un matrimonio felice, senza divorzio. Se lavoreremo seguendo le linee di uno sforzo congiunto da parte degli studiosi del Buddhismo – e non soltanto da parte loro, ma anche di chi del Buddhismo ha una certa esperienza – e dei fisici puri e imparziali, uno sforzo volto a investigare, studiare e impegnarsi in una ricerca più approfondita nel capo della relazione tra materia e coscienza, entro il prossimo secolo potremmo scoprire delle cose molto belle, che potrebbero esserci di grande aiuto. Questo non dobbiamo considerarlo una pratica religiosa, ma semplicemente qualcosa da farsi per allargare la conoscenza umana.Anche gli scienziati che lavorano sul cervello umano nel campo della neurologia potrebbero trarre vantaggio dalle spiegazioni offerte dal Buddhismo a proposito della coscienza – come funziona, come cambia livello e così via. qualche tempo fa ho chiesto a un neurologo come funziona la memoria. Mi ha risposto che non è ancora stata trovata una spiegazione concreta: anche in questo campo, quindi, potremmo lavorare insieme. Per finire, alcuni medici professionisti dell’Occidente mostrano interesse per la cura di certe malattie attraverso la meditazione. Ecco un altro argomento interessante per un progetto congiunto.Il Buddhismo pone l’accento sull’autocreazione. Non esiste un Dio creatore, nel Buddhismo, e così, da questo punto di vista, alcuni non lo considerano, in senso stretto, una vera religione. Uno studioso buddhista dell’Occidente mi ha detto: «Il Buddhismo non è una religione: è u tipo di scienza mentale». In questo senso il Buddhismo non appartiene alla categoria delle religioni. Per me è un vero peccato, ma in ogni caso significa che il Buddhismo si avvicina di più alla scienza. Andando avanti, dal punto di vista strettamente scientifico, il Buddhismo naturalmente viene considerato un tipo di sentiero spirituale. Ancora, però, è un vero peccato che non apparteniamo alla categoria della scienza. Il Buddhismo pertanto non appartiene né alla religione né alla scienza pura, ma questa situazione ci dà l’opportunità di stabilire un legame, un ponte, tra fede e scienza. Ecco perché credo che, in futuro, dovremo operare per portare queste due forze a contatto molto più stretto di quanto non siano adesso.
La maggior parte delle persone si limita a trascurare semplicemente la religione, ma tra quelli che non la trascurano ci sono, da una parte, il gruppo di seguaci della fede che sperimentano il valore di un sentiero spirituale e, dall’altra, un gruppo di coloro che deliberatamente negano alla religione qualunque valore. Il risultato è un conflitto continuo tra le due fazioni. Se in un modo o nell’altro riuscissimo ad avvicinare queste due forze, ne varrebbe senz’altro la pena. 




Bene, cari amici: il post si chiude qui. Prima di lasciarvi vi pongo la domanda di rito: e voi, come contrastate questo tipo di disagio?


Buona settimana, un caro saluto e  presto ^__^

lunedì 16 aprile 2018

Parliamo del FAI con Giovanni Giorgetti FAI Varese






Qualcuno, dopo aver letto un recente post nel quale dichiaravo di essere una dei tanti Volontari FAI, mi ha invitato a parlare del Fondo per l’Ambiente Italiano. Certamente sì e con immenso piacere! ^__^

12 aprile 2018, giornata di formazione ai volontari di Villa Panza con l'artista Barry X Ball.
Sullo sfondo: Laura Mattioli's Portrait, di B. X Ball in dialogo con la Collezione Panza



Per farlo nel modo più adeguato ho scelto di coinvolgere il responsabile del coordinamento volontari FAI di Varese, Giovanni Giorgetti, al quale ho sottoposto una serie di domande mirate a soddisfare le curiosità di quanti si affacciano su questo blog.

Prima di lasciarvi alle sue risposte vorrei descrivere sinteticamente i motivi per cui anch’io presto così volentieri il mio tempo a questa fondazione.  
Innanzitutto, perché essa difende il patrimonio di tutti noi, cioè il patrimonio culturale e ambientale del nostro Paese, e lo fa partendo dalla sensibilizzazione e responsabilizzazione della cittadinanza.
Purtroppo, si sa, tutta questa bellezza rischia sempre di andare perduta e, pertanto, vorrei dare il mio piccolo contributo affinché ciò non accada.
Un altro motivo per cui apprezzo immensamente il FAI è che promuove tantissime attività formative ed educative, come i corsi di storia dell’arte, gli incontri e così via. Non trovate anche voi che sia bellissimo? 
Non da ultimo, grazie all’attività di volontariato mi sento parte di un gruppo con il quale condivido gli stessi interessi culturali.


Ecco, credo di aver detto tutto quello che mi riguarda e ora vi invito alla lettura dell’INTERVISTA.    

Giovanni Giorgetti, Responsabile
Coordinamento Volontari Varese


D: Prima di tutto benvenuto, Giovanni! Te la senti di presentarti ai miei lettori raccontando qualcosa di te, della tua attività all’interno del FAI, il tuo percorso formativo e, magari, anche svelando da dove nasce la tua passione per l’arte?
R: Innanzitutto grazie, Daniela per avermi dato questa opportunità, sono felice di rispondere alle tue domande e grazie ai lettori che dimostrano interesse. Diciamo che il mio percorso formativo e la mia predilezione per l’arte vanno di pari passo in tutta la mia vita. Da dove nasce la mia passione sinceramente non te lo so dire, ma ti posso dire che già da piccolo sentivo una forte attrazione per le forme e i colori. Durante il mio percorso scolastico mi sono poi avvicinato al disegno avendo frequentato il liceo artistico nella mia città, Varese, dove ho unito in un corso di formazione unico e grazie a insegnanti davvero speciali, sia una passione teorica per la storia dell’arte che una parte pratica davvero molto molto importante. Apprendere i fondamenti di disegno, modellazione, scultura secondo me è un tassello basilare e unico per un percorso completo di studi storico artistici. Penso che lo studio della storia dell’arte deve avere due requisiti fondamentali oltre allo studio teorico: l’osservazione e la visione dal vero (non in foto, internet, o solo sui libri) ma dal vero dei manufatti artistici e una parte operativa di sperimentazione delle tecniche artistiche. Se non ci sono queste componenti il tutto rimane solo teorico e abbastanza sterile, a mio avviso. Mi sono infatti laureato in Storia dell’Arte Contemporanea, non presso la facoltà di lettere, bensì presso il DAMS di Torino, con un piano di studi individuale, concordato quindi direttamente con i professori, con i quali desideravo confrontarmi, che ha spaziato dalla Storia del Cinema al Teatro insomma a tutti i linguaggi di espressione non verbali. Poi quando ero ancora studente è stata aperta Villa Panza e mi sembrava finalmente la concretizzazione di un sogno, la possibilità di avere anche vicino a casa delle opere di alcuni dei più grandi esponenti della cultura artistica internazionale, che nemmeno in grandi musei metropolitani italiani sono ospitati perché non compresi e allora ecco che è iniziata la mia avventura con il FAI  

D: Come già ti avevo accennato, vorrei chiederti la cortesia di spiegare, per sommi capi, cos’è il FAI: la sua storia, i suoi obiettivi, come si sostiene, a cosa serve sottoscrivere la tessera…
R: il FAI, Fondo Ambiente Italiano è una fondazione di diritto privato, senza scopo di lucro nata nel 1975, sul modello del National Trust, con il fine di tutelare e valorizzare il patrimonio storico, artistico e paesaggistico italiano. Nasce appunto nel 1975, lavoriamo per raggiungere tre principali obiettivi: prendersi cura, per le generazioni di oggi e di domani, di luoghi speciali del nostro Paese, educare alla conoscenza e all’amore dei Beni storici e artistici e dei paesaggi d’Italia; vigilare sulla tutela del patrimonio paesaggistico e culturale. Ci sono diversi modi per sostenere il FAI sia più diretti che indiretti, senz’altro l’iscrizione che da come primo benefit l’ingresso in tutti i beni è una delle modalità più importanti, noi viviamo di questo e operiamo grazie proprio ai nostri iscritti dai quali provengono la maggior parte delle entrate. Ci sono poi altre modalità come ad esempio la sottoscrizione del 5 per mille oppure ancora la collaborazione attiva e fattiva alle nostre iniziative come volontari

Perfect Form, B.X Ball nello studiolo
a Villa Panza
D: Soffermiamoci un momento sul servizio di volontariato a favore del FAI. Partendo dal tuo punto di vista e tenendo inevitabilmente conto del tuo ruolo e della tua esperienza, quali elementi metteresti a fuoco nel parlare delle attività dei volontari?
R: E’ una domanda sulla quale sono già stato portato a riflettere e che ha trovato in me via via risposte differenti negli anni precedenti, ti ringrazio di avermela posta ora perché mi dà la possibilità di esprimere finalmente la sintesi alla quale sono giunto, l’elemento principe, dominante su tutti, che muove tutto è la PASSIONE. Come ti accennavo, a domande come questa mi sono trovato a dare risposte imminenti legate piuttosto a qualcosa di pratico, i ruoli, i settori nei quali i volontari ci aiutano, la loro forza, la loro instancabilità e potrei andare avanti a elencare mille altre caratteristiche che però sono appunto delle caratteristiche sottese alle quali c’è appunto “solo” la passione. La passione che anima noi, me, i volontari tutti è il vero motore.

Formazione volontari Villa Panza. L'artista B.X Ball
tra alcune sue opere



D: Vorrei indugiare un poco sul corso di formazione dei volontari “narratori”. Ti va di tracciare un tuo personale bilancio di questa attività? Quando nasce, su quale spinta, con quali obiettivi, quali sono i “dietro le quinte”, ovvero come si svolge e che frutti ha restituito finora?
R: Mi sembra che per risponderti debba necessariamente ricollegarmi alla domanda precedente. La spinta passionale all’inverosimile arriva da una persona, Valeria Sessa, responsabile nazionale dei volontari che per prima ha creduto nel progetto narratori. E’ riuscita a applicarlo in alcuni beni primi fra tutti, forse i più ricettivi, forse i più nuovi, non so ma non inizialmente a Villa Panza. Qui il progetto narratori ha inizialmente stentato a partire per due ragioni, una più pratica che è quella che Villa Panza è connotata dal susseguirsi mostre temporanee che riguardano artisti diversi e occupano spazi diversi e per le quali vengono disallestite parti della collezione permanente differenti e che dialogano in modo altrettanto differente con la collezione permanente, il tutto in uno spazio fortemente connotato dall’impronta del collezionista Giuseppe Panza. Il secondo motivo per il quale la partenza del progetto narratori ha stentato a partire è, e non lo nascondo, una mia ritrosia iniziale, insomma non ci credevo più di tanto e pensavo che le narrazioni dei volontari non avrebbero mai dato un giusto apporto di conoscenza storico artistica al pubblico. Ringrazio Valeria Sessa per avermi fatto ricredere con la sua tenacia e la sua costanza. Come ti dicevo sopra, la passione muove tutto e tutto permette. La partenza non è stata semplice, ci sono stati colpi e contraccolpi come credo che sia normale il tutte le organizzazioni e il lavoro non è mai finito e mai finirà, ci troveremo sempre di fronte a nuove sfide e a nuovi contenuti da raccontare che ogni volontario però può arricchire con il suo bagaglio di esperienze, non necessariamente di studi, e di sensibilità personale. I frutti o meglio l’obiettivo principale è stato raggiunto: una maggior soddisfazione del pubblico. Noi non vendiamo biglietti d’ingresso, ma facciamo vivere esperienze al pubblico, esperienza che va dal momento in cui la persona varca la soglia dell’ingresso fino alla fine della visita e questo grazie anche all’apporto dei nostri volontari che, per fortuna, non sono tutti preparati allo stesso modo, non hanno tutti la stessa cultura, non dicono tutti la stessa storiella. Diciamo pure che ci sarebbero le audioguide e le app di visita, se questo fosse stato in qualche modo il nostro scopo. I narratori in quanto tali si formano, si stanno formando, si sono formati per interagire con il pubblico e per capire quello di cui il pubblico ha bisogno, cioè vivere un’esperienza gratificante. Tutti i nostri narratori dicono cose diverse a pubblici diversi a seconda di dove si trovano o di come interagiscono e soprattutto nella maggior parte dei casi invitano a riflessioni sulle nostre opere che sfuggono ai più, anche se a volte possono apparire semplici, tanto semplici da sfiorare la banalità e quindi da non essere prese in considerazione. Invece, sono alquanto preziose. Mi riferisco alla bellezza della superficie del “Cono d’acqua” di Meg Webster, alla particolarità dei colori del cielo rapiti da James Turrell, alla densità a volte tattile dei colori di Dan Flavin, giusto per riportare qualche esempio. I narratori di Villa Panza poi sanno che la visita e l’esperienza non si conclude con le loro parole e passano quindi il testimone al visitatore che può entrare rientrare, ritornare per rivedere quei particolari che sono il tutto dell’opera, oserei dire.   

Flayed Herm, B. X Ball, Villa Panza
D: Immagina di avere a disposizione una fantastica macchina del tempo grazie alla quale sei in grado di avere uno sguardo prospettico sul futuro, prossimo e più remoto, delle tante iniziative del FAI. Quali progetti vedi? E qual è, secondo te, la chiave di volta per raggiungere un equilibrio tra promozione e novità culturale?
R: Beh, sarebbe bello poter vedere avanti o almeno prevedere una parte delle cose che succederanno per poter prevenire e organizzarci, ma purtroppo viviamo in uno scenario e in una società sempre meno prevedibili. Quello che osservo e mi sembra di sentire è un crescente fermento attorno al FAI, che anni fa non c’era, e che è stato raggiunto attraverso il contributo dei Gruppi Giovani, le Delegazioni, dei Volontari afferenti ai beni che, anche solo con il loro passaparola oltre che con l’uso dei nuovi mezzi di comunicazione, soprattutto i social, ci danno una grande visibilità. Io vedo una fondazione sempre più radicata e conosciuta a livello nazionale, più presente e popolare.

Un altro momento della giornata di
formazione a Villa Panza con B. X Ball
D: Come ben sai, svolgo la mia attività di volontariato soprattutto presso Villa Panza, a Varese. Qual è, dal tuo punto di vista, la situazione di questo bene? Quali sono i suoi punti di forza? E gli eventuali punti di debolezza? E come si relaziona Villa Panza con gli altri attori del sistema arte?
R: Villa Panza, come hai avuto modo di vedere è un bene complesso, un po’ diverso dagli altri del FAI che in generale non hanno mostre e non sono così votati all’arte contemporanea e direi che non si devono confrontare con il lascito di un Collezionista così preciso come Giuseppe Panza. Al momento la situazione è quella in cui tutti siamo consci della complessità di ciò in cui ci troviamo a operare e penso davvero che da questa consapevolezza siano nate e stiano nascendo una serie di azioni, consce o meno, che ci portano ad aspirare sempre al meglio. Il punto di forza è l’internazionalità del bene, il fatto che la collezione Panza sia conosciuta a livello mondiale; uno dei punti di minor forza, invece è la dislocazione un po’ periferica legata però anche ad alcune difficoltà strutturali della città di Varese. Una fra tutte la possibilità di raggiungerci con mezzi pubblici agevoli e non solo da Milano. Le cose stanno recentemente cambiando, ci sono diversi progetti in città tra i quali uno in particolare che, finalmente, è già stato realizzato, cioè a Varese non arrivano più solo i treni da Milano, ma anche da Como e dalla Svizzera, da Lugano. Esistono, inoltre, progetti di mobilità sostenibile e biciclette a disposizione di chi voglia raggiungere la villa con questo mezzo, ad esempio. Penso che a breve inizieremo tutti a sfruttare sempre più consapevolmente queste possibilità

Barry X Ball tra alcune sue opere,
formazione volontari Villa Panza
D: Cosa può fare Villa Panza per aiutare l’arte contemporanea?
R: Credo che continuare a proporre mostre di qualità, come quelle presentate in questi anni, sia la strada giusta: mostre che dialogano con la collezione e con “l’eredità” di Giuseppe Panza. Dobbiamo però anche insistere nel solco delle azioni di divulgazione delle mostre per fare in modo che i loro contenuti risultino accessibili a un pubblico sempre più esteso e non solo agli addetti ai lavori. Quindi, in riferimento a questo punto specifico è fondamentale l’attività dei volontari che, come te, ogni giorno instancabilmente accogliete, spiegate, narrate i contenuti dell’esposizione. In merito a ciò abbiamo dei riscontri oggettivi e, infatti, i positivissimi commenti lasciati dai visitatori, sia sui social che in villa, lo dimostrano ampiamente.

D: Ci puoi tracciare il profilo del visitatore tipo di questo bene FAI?
R: Tracciare un’unica tipologia di visitatore è praticamente impossibile. Gli scenari cambiano in continuazione a seconda della mostra in corso, della stessa collezione permanente e anche in base alle attività svolte. Ad esempio, le attività domenicali, oppure le attività più “ludiche” organizzate per le festività di Pasquetta o delle feste di aprile e maggio portano dei target differenti, più legati ai nuclei familiari che vivono la villa in modo differente rispetto a chi, invece, è più interessato ai contenuti storico artistici. Esistono dunque pubblici diversi che fruiscono di questo bene in modi differenti. A ciascun tipo di bisogno noi cerchiamo di rispondere con soluzioni di alta qualità sempre mirate a creare valore. Infatti, è molto molto bello vedere i papà che si aggirano nel parco con i passeggini, le mamme con i bambini, anche molto piccoli, che vengono accompagnate, guidate nelle attività laboratoriali dai nostri animatori. Inoltre, ad esempio, la mostra di Robert Wilson, che si è appena conclusa, ha registrato dei buoni ingressi di pubblico giovane, forse anche per via dello stesso mezzo utilizzato dall’artista, il video. 

D: Considerando che dietro a ciascun lettore – proveniente da differenti regioni italiane – ci sia un potenziale visitatore, o un potenziale volontario quale messaggio/consiglio vorresti lanciare da questo blog?
R: Beh innanzitutto, in modo indifferenziato per il visitatore e per il volontario, direi di vivere i nostri beni, di partecipare alle visite, di stare e sostare nei giardini con i bambini, di godersi dei momenti di “ozio operoso” cioè di svago, che però porta sempre con sé un arricchimento. Diventare soci FAI significa proprio questo, cioè partecipare e, di fatto, partecipare significa conoscere. Poi se si ha la possibilità di dare qualcosa in termini di tempo, competenze e conoscenza, come volontari, direi che è ancora meglio. I volontari penso che siano la ricchezza primaria della fondazione e la base della piramide.

D: Ultima domanda, importantissima: come possono contattare il FAI tutti coloro che intendono svolgere un servizio di volontariato?
R: E’ molto semplice e le formalità sono davvero poche, possono farlo attraverso il nostro sito https://www.fondoambiente.it/sostienici/diventa-volontario/ direttamente da lì è possibile scegliere l’ambito o il bene o delegazione con la quale si vuole interagire.
Per i beni, ad esempio, si possono anche contattare direttamente i punti di accoglienza https://www.fondoambiente.it/luoghi/beni-fai in modo da avere un contatto diretto.
Per i Beni della zona di Varese: Villa Panza, Monastero di Torba, Villa Bozzolo, Casa Macchi è anche possibile contattarmi direttamente via mail all’indirizzo g.giorgetti@fondoambiente.it

È arrivato il momento dei saluti. Grazie del tempo che ci hai dedicato, Giovanni! È stato un onore e un vero piacere ospitarti. Mi auguro che passerai ancora a trovarci :)

Siamo quasi giunti alla conclusione del post. Prima, però, vi ricordo che dal 12 Aprile fino al 9 Dicembre Villa Panza ospita “The end of history”, la retrospettiva dell’opera del celebre artista californiano Barry X Ball.

E ora ecco la domanda per voiqual è la vostra opinione riguardo al volontariato FAI?

Aspetto i vostri commenti e/o le vostre domande.
Grazie a tutti, un caro saluto e a presto! ^__^

Eccomi! Se ti è piaciuto il post condividilo sui tuoi
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Grazie e Ciao! ^__^




lunedì 9 aprile 2018

A spasso tra i castelli di Bellinzona





Se è vero, com’è vero, che la primavera esorta a mettersi in cammino non c’è niente di meglio che partire per un nuovo itinerario. Vi porterò alla scoperta di tre castelli medievali inseriti, nel 2000, dall’Unesco nel Patrimonio Mondiale dell’Umanità.

Prima di iniziare il nostro viaggio vi invito a soffermarvi un poco sul testo della prima città legata alla memoria all’interno del primo capitolo del romanzo “Le Città Invisibili”, di Italo Calvino: Isidora.


“All’uomo che cavalca lungamente per terreni selvatici viene desiderio di una città. Finalmente egli giunge a Isidora, città dove i palazzi hanno scale a chiocciola incrostate di chiocciole marine, dove si fabbricano a regola d’arte cannocchiali e violini, dove quando il forestiero è incerto tra due donne ne incontra sempre una terza, dove le lotte dei galli degenerano in risse sanguinose tra gli scommettitori.
A tutte queste cose egli pensava quando desiderava una città. Isidora è dunque la città dei suoi sogni: con una differenza. La città sognata conteneva lui giovane; a Isidora arriva in tarda età. Nella piazza c’è il muretto dei vecchi che guardano passare la gioventù; lui è seduto in fila con loro. I desideri sono già ricordi.”


Dunque, siete pronti a intraprendere un tuffo nel passato?

Bene, iniziamo!

Castel Grande


bus navetta per i tre castelli, Bellinzona
I tre particolari castelli di Bellinzona sono da annoverare tra le testimonianze più suggestive dell’architettura difensiva medievale del Canton Ticino. Ricostruiti più volte nell’arco dei secoli, si presentano oggi nel loro splendore in un contesto naturalistico e urbano di grande qualità. Li si può visitare da Aprile a Novembre: io ci sono andata a Pasqua in una magnifica giornata di sole.
Ho lasciato l’auto nel parcheggio di fronte alla stazione ferroviaria (ci si può arrivare tranquillamente in treno) e ho proceduto a piedi, per una cinquantina di metri, in direzione di piazza Noseda, in centro. Volendo, però sempre lungo questa via, è disponibile il bus navetta che conduce a ciascuno delle tre fortezze.

Arrivata all’incrocio di via Vela, sono giunta a una piccola porta che si apre verso l’ingresso di Castel Grande

Entrando nelle mura di cinta si può scegliere di proseguire a piedi fino alla sommità, godendosi il panorama di Bellinzona e dei monti circostanti, o prendere il comodo ascensore.

All’interno di Castel Grande sono fruibili, pagando cinque euro (quota che garantisce la visita di ciascuna parte museale delle tre strutture fortificate), anche il museo archeologico e il museo artistico. Diversamente, ci si può divertire esplorando le corti e i suggestivi camminamenti delle torri, in modo del tutto gratuito.

Castel Grande, esterni

Una volta visitato Castel Grande si scende di nuovo verso il centro di Bellinzona, molto piacevole da percorrere a piedi. 
Bellinzona, il centro

Lì, al fianco della chiesa principale, si trova l’indicazione per il castello di Montebello
Bellinzona, la chiesa e l'inizio
della salita per Montebello

Bellinzona, i palazzi del centro storico
Da qui, in pochi minuti di risalita lungo la scalinata si giunge all’ingresso opposto al ponte levatoio.

In questo modo si gode di una prospettiva completamente immersa nel verde dei monti che si spalanca sul precedente castello e sullo scenario cittadino: un vero spettacolo per gli occhi!


eccomi sulle mura di Montebello
sullo sfondo il Castel Grande e Bellinzona

Montebello, gli esterni

Castello di Montebello, corte e ponte
levatoio

Attraversando in seguito il ponte levatoio, si prosegue tra le rocce per inerpicarsi verso Sasso Corbara.

Castello di Sasso Corbara
Giunti fino in cima a questa collina, ci si ritrova in un castello meno scenografico dei precedenti e più isolato, ma la vista si allarga, volgendo verso settentrione, fino alla valle Riviera dominata dal pizzo di Claro e spingendosi, verso meridione, fino al bacino del Lago Maggiore in territorio italiano.

Castel Grande dalla salita di Montebello








Ora, però vi racconto per sommi capi la storia di queste fortezze…

Già intorno al X secolo Bellinzona costituiva un’importante linea difensiva alle invasioni dei barbari, ma le prime fortificazioni in loco, archeologicamente accertate e insediate sulla collina più prossima alla città, risalgono addirittura al IV secolo d.C.
Nel XIV secolo la prima di queste strutture viene a prendere il nome giunto fino ai nostri giorni: Castrum Magnum, Castel Grande.

Tra la seconda metà del 1200 e l’inizio del 1400 l’intera regione viene assoggettata al dominio milanese. Nel 1340 i Visconti, dopo aver conquistato il territorio, ne rafforzano via via le frontiere e tentano in tutti i modi di contenere gli assalti provenienti da Nord, al fine di agire un controllo dei flussi commerciali e reprimere il contrabbando di sale e altre derrate alimentari.
Sotto il loro dominio Bellinzona diventa capoluogo dei territori alpini e delle Tre Valli Ambrosiane.

Nel 1402, anno in cui viene a mancare Gian Galeazzo Visconti, la città e i suoi castelli passano nelle mani di alcuni casati svizzeri, tra cui i signori di Mesolcina, ma dopo un paio di decenni, tornano di nuovo sotto l’egida dei Visconti. 
I signori di Mesolcina, tuttavia provano più volte a tornarne in possesso. Questi luoghi sono dunque destinati a diventare imperituri scenari di battaglie che si protraggono senza sosta.

Arriviamo al 1449, data in cui Francesco Sforza eredita tutti i possedimenti dei Visconti e riprende il controllo della zona. Inizia il periodo sforzesco durante il quale Francesco mette in atto l’intensificazione delle politiche di estensione territoriale. Nel giro di qualche anno provvede ad allargare la cinta muraria della struttura fortificata. Verso il basso essa arriva fino alle sponde del fiume Ticino e verso l’alto si innalza per qualche centinaio di metri sopra Castel Grande.

Piero Pollaiuolo, ritratto di Galeazzo
Maria Sforza

Intanto il casato passa sotto la guida di Galeazzo Maria Sforza, figlio di Francesco. Galeazzo Maria Sforza, che intende contrastare in modo efficace le torme di mercenari svizzeri al soldo dei confederati, sempre più agguerriti e decisi ad avanzare sul territorio di Bellinzona, fa edificare un secondo castello, il cui nome originario è Castel Piccolo, successivamente commutato in Castello di Montebello.
La presenza del secondo castello ha l’obiettivo di tutelare i confini Settentrionali del ducato in un clima politico complessivo decisamente incandescente.

Va detto, però, che all’interno della famiglia Sforza è in corso un gran tumulto che, nel giro di un ventennio scarso, si rifletterà sulle sorti del territorio delle valli Ambrosiane.
Nel 1476, infatti, Galeazzo Maria Sforza viene, dapprima – a giugno – esposto a una sedizione interna capeggiata dai suoi stessi fratelli, Sforza Maria e Ludovico, che nel corso di una seduta consiliare nel castello di Pavia tentano di pugnalarlo, e in un secondo momento – il 26 dicembre dello stesso anno -  assassinato con diverse pugnalate, presso la chiesa di S. Stefano, a Milano. L’omicidio di Galeazzo Maria mette in grave imbarazzo i membri stessi della dinastia sforzesca, tanto che il suo cadavere viene recuperato dalla basilica solo a tarda sera per poi essere tumulato in fretta e furia, oltre che di nascosto, in mezzo a due colonne nel Duomo di Milano. L’imbarazzo della corte milanese è evidente. In questo contesto il governo del ducato passa dunque nelle mani del primo dei suoi tanti figli, tra quelli legittimi e illegittimi, un ragazzino di soli sette anni, Gian Galeazzo Maria Sforza. Esattamente due anni più tardi, nel 1478, nel mezzo di un periodo estremamente confuso per la famiglia Sforza, la città di Bellinzona subisce un tremendo assedio da parte dei confederati.

Giovanni Antonio De Predis, Ritratto di
Gian Galeazzo Maria Sforza

Con un gran gioco d’abilità politica, contrassegnata da astuzia e crudeltà, oltre che da una sequela di morti sospette, tali da far quasi inorridire gli storici del tempo, il ducato milanese passa sotto la reggenza di Ludovico il Moro, zio di Gian Galeazzo Maria.

Ludovico il Moro (dettaglio) ritratto nella
Pala Sforzesca

Costui, accortosi dei gravi danni inferti a Bellinzona, rafforza le difese della città e, nel 1482, ordina di intraprendere in tutta fretta la costruzione di un terzo castello, il castello di Sasso Corbara il cui scopo è evitare l’aggiramento a monte dello sbarramento costituito dai primi due sottostanti. 

Charles VIII Scuola Francese XVI secolo
Ludovico, a cui però non basta più il riconoscimento di semplice reggente del casato, bramando di ottenere la legittimazione alla guida della signoria degli Sforza, una dozzina di anni più tardi, nel 1494, permette a Carlo VIII di Valois, re di Francia, di occupare Bellinzona e tutti i suoi tre castelli.

Contestualmente, il giovane nipote Gian Galeazzo Maria Sforza muore, dopo cinque giorni di agonia, a causa di una portata di cibo avvelenato. Anche dietro a questo delitto qualcuno scorgerà la longa manus del “caro zietto”.  

Inoltre, una volta ottenuta l’investitura del ducato di Milano, Ludovico non lascia trascorrere nemmeno un momento e appena Carlo VIII scende in Italia, gli diventa subito avversario ed entra, di gran carriera, nella lega strettasi a Venezia contro la Francia... insomma, buon sangue non mente ;-)

Vi è piaciuta la storia? Cosa pensate di questa proposta di viaggio?

A presto e buona settimana! ^__^


Il castello dei Pirenei, R. Magritte



BIBLIOGRAFIA:

Italo Calvino, “Le Città Invisibili”, ed. Einaudi, 1972
Gian Galeazzo Visconti, Enciclopedia Treccani
Francesco Sforza, Enciclopedia Treccani
Galeazzo Maia Sforza, Enciclopedia Treccani
Gian Galeazzo Maria Sforza, Enciclopedia Treccani
Ludovico Sforza detto Il Moro, Enciclopedia Treccani

ICONOGRAFIA:

Il castello dei Pirenei (Le Château des Pyrénées), René Magritte, 1959, Israel Museum di Gerusalemme, Pinterest
Piero Pollaiuolo, ritratto di Galeazzo Maria Sforza, 1471, Galleria degli Uffizi, Firenze, Wikipedia
Giovanni Antonio De Predis, Ritratto di Gian Galeazzo Maria Sforza, 1483, Cleveland Museum. Wikipedia
Charles VIII Scuola Francese XVI secolo, Musee de Conde Chantilly, Wikipedia
Tutte le immagini relative a Bellinzona e i suoi tre castelli sono frutto dei miei scatti fotografici.