Su invito di una mia carissima
amica che, tempo fa, mi chiese di approfittare dello spazio del blog per approfondire
alcuni argomenti buddisti (non
faccio nomi, ma lei sa perfettamente di chi sto parlando), oggi vi parlo del concetto di non-attaccamento e, per farlo, mi avvarrò di una parabola.
Le scritture buddiste sono
piene di parabole concepite per permettere alle persone di comprendere il
profondo insegnamento che vi sta dietro.
La parabola, infatti, è un
genere letterario, noto anche agli autori greci e romani, in forma di racconto,
finalizzato a trasmettere un qualche tipo di insegnamento morale o spirituale.
Cos’è, dunque, una parabola? È
la capacità di mettere in relazione un fatto preso dalla vita quotidiana con un
insegnamento che rimane in gran parte velato. Rimarrà all’uditore (nel buddismo
si è sviluppata per secoli una grandissima tradizione orale prima di giungere
alla tradizione scritta, ossia quella che possiamo ritrovare nei vari Sutra e
che altro non sono che la trascrizione degli insegnamenti orali) o al lettore il
compito di discernere, nel racconto “raffigurativo”, l’insegnamento che viene
espresso.
Quindi, nella parabola viene
inscenato un racconto finto; ad un certo punto della narrazione l’ascoltatore viene
trasportato dalla finzione alla realtà e viene quindi invitato ad esprimere un giudizio
che avrebbe faticato a spiegare altrimenti.
L’espressione del concetto
fondamentale, dunque, non avviene attraverso un discorso chiuso e definito, ma
attraverso un lampo di percezione che permette di andare oltre il senso del
racconto. L’intelligenza dell’ascoltatore viene perciò stimolata a intuire e a
proseguire, senza fermarsi ad una comprensione forzata, ma attraverso una
libera adesione.
La parabola che propongo in questa occasione è quella della zattera, tratta dalla Majjhima-
Nikāya, raccolta nella Sutta-Nipāta, ossia una collezione di scritture redatte in
lingua pali, che appartengono alla tradizione del buddismo Theravada.
Giacché ho introdotto questa
informazione, ne approfitto per accennare una spiegazione sintetica tra la tradizione Theravada e quella Mahayana.
La tradizione Theravada, che significa «tradizione degli antichi», ha origini nello Sri Lanka intorno al 240
a.C. e si basa sui sutra del canone Pali, cioè la più antica raccolta dei
discorsi del Buddha storico. Secondo questa scuola di pensiero, un discepolo ha
lo scopo di divenire un Arhat, cioè
colui che raggiunge il Nirvana per non rinascere mai più. Questo stadio,
richiede un’esistenza assolutamente rigorosa e di rinuncia del mondo.
Per converso, la tradizione Mahayana,
si è sviluppata in India nei primi secoli dell’era cristiana e ancora oggi risulta
molto diffusa in Tibet, Nepal, Cina, Giappone, Corea. In base a quest’altra
scuola di pensiero un discepolo mira a raggiungere l’Illuminazione per
diventare un Bodhisattva, cioè colui
che ritarda l’entrata nel Nirvana per aiutare altri nella via della salvezza.
Il Mahayana comprende molte e differenti tradizioni che divergono anche sulle
specifiche modalità con cui si possa raggiungere questo obiettivo. Nell’ambito
del Mahayana sono stati composti molti testi che, benché scritti molti secoli dopo
la vita terrena del Buddha, sono considerati «sutra», cioè discorsi del Buddha
stesso.
Nonostante queste differenze,
le due tradizioni sono coesistite per secoli nei vari paesi e talvolta
addirittura all’interno degli stessi monasteri.
Per esser chiara, vi informo
che personalmente preferisco il buddismo della tradizione Mahayana, ma questa parabola, credetemi, ed è molto adeguata allo scopo.
Ciò che essa intende spiegare è
l’arte di non sprecare la propria vita legandosi a un passato che non può
tornare più, ovvero l’importanza di attuare un sano distacco. Nell’ottica di favorirne la comprensione vi espongo
alcune mie considerazioni di supporto.
Il succo del racconto consiste
nel tener presente quanto sia importante, per vivere bene, lasciarsi alle
spalle ciò che non ci rende sereni (che potremmo immaginare come tante zavorre)
e che ci impedisce di aprirci al nuovo.
Protagonisti sono un uomo e
una zattera che simboleggia ciò da cui dovremmo separarci lungo il cammino
della nostra vita.
Ecco il racconto:
“Supponiamo
che un uomo sia di fronte ad un grande fiume e deve attraversarlo per
raggiungere l’altra riva, ma non c’è una barca per farlo, cosa farà? Taglia
alcuni alberi, li lega insieme e costruisce una zattera. Quindi si siede sulla
zattera e usando le mani o aiutandosi con un bastone, si sposta per
attraversare il fiume. Una volta raggiunta l’altra sponda cosa fa? Abbandona la
zattera perché non ne ha più bisogno. Quello che non farebbe mai, pensando a
quanto gli era stata utile, è caricarla sulle spalle e continuare il viaggio
con lei sulla schiena. Allo stesso modo, i miei insegnamenti sono solo un mezzo
per raggiungere un fine, sono una zattera che vi trasporterà sull’altra riva.
Non sono un obiettivo in sé, ma un mezzo per ottenere l’illuminazione”
E questa sarebbe la condizione
ideale, ovvero una volta che non ci serve più e una volta raggiunto l’obiettivo
che desideriamo, la cosa più normale da fare sarebbe abbandonare la zattera.
Ma alcune persone salgono
sulla zattera e non remano, dimenticando che devono arrivare dall’altro lato.
Finiscono così per perdere la prospettiva ancor prima di iniziare il loro
viaggio. E allora si concentrano sulla zattera per renderla più comoda:
costruiscono pareti, il tetto, l’arredano.
Cioè, trasformano la zattera
in una casa e la legano saldamente alla riva. Non vogliono sentir parlare di
mollare le cime o issare l’ancora.
Vediamo come continua la
narrazione:
“Altre
persone si fermano a fissare la zattera dalla riva e dicono: 'Che bella
zattera, è grande e solida'. Prendono il metro e la misurano. Sanno esattamente
quali sono le sue dimensioni, il tipo di legno con cui è costruita e dove e
quando fu costruita. Alcuni vanno oltre e realizzano una scheda tecnica che
serve a vendere zattere all’ingrosso. Ma per quante zattere vendono, non sono
mai saliti su di una e non hanno nemmeno pensato di attraversare il fiume. ‘È
troppo rischioso’, pensano”
Ancora ci sono persone che
rimangono a riva per costruire una zattera più grande e sicura, così da
affrontare il viaggio senza pericoli. Ma succede che rimangono esattamente dove
si trovano, facendo considerazioni, litigando e arrabbiandosi: in questo modo non vanno da nessuna parte.
“Alcune
persone pensano che la zattera sia troppo semplice, rustica e poco attraente.
La guardano e scuotono la testa. ‘Sembra un fascio di tronchi legati in modo
approssimativo’. Così decidono di abbellirla, la dipingono, la decorano e la
ricoprono di fiori, ma non arrivano mai a salirci sopra, tantomeno pensano di
remare fino all’altra riva”
Ed ecco che il racconto
riserva la sua spiegazione:
“La
riva sulla quale ci troviamo è il presente, l’esistenza legata all’ego, l’altra
riva è quello che aspiriamo a diventare, rappresenta i nostri obiettivi e
sogni. La zattera ci aiuta ad attraversare le acque, questa è la sua funzione,
ma dopo dobbiamo abbandonarla”
Così la zattera diventa il
simbolo di tutto ciò che nel passato e nel presente ci è servito per arrivare
da un’altra parte, ma dobbiamo imparare ad abbandonarla, non a tenerla sulla
schiena.
La zattera non si riferisce
solo ai beni materiali, è tutto ciò che ci lega e ci impedisce di raggiungere
il nostro pieno potenziale: possono essere relazioni interpersonali che hanno
perso la loro ragion d’essere, o certe credenze, o certi insegnamenti che un
tempo abbiamo creduto utili (e che forse lo sono anche stati, proprio perché funzionali a quel preciso momento storico), o certi tratti o
della personalità che ci tengono legati a una condizione che non ci appartiene
più.
In sintesi, il racconto ci
parla della nostra tendenza ad aggrapparci a cose e situazioni, finendo per
sprecare la nostra vita. A volte lo si fa per paura, ma il cambiamento fa parte
della quotidianità ed è necessario scoprire cosa ci riserva l’altra riva.
Con tutto
ciò, a scanso di equivoci, il concetto di non-attaccamento non intende negare l’importanza
del passato, ma proporne una “lettura” scevra da inutili e dannosi orpelli,
mettendo in luce un passaggio fondamentale, ovvero la consapevolezza di chi
siamo, di cosa siamo, di cosa stiamo facendo, di cosa stiamo pensando, senza
trascurare il punto di partenza per la nostra salvezza: ricordare il nostro vero
scopo.
E ora lascio a voi la
parola: cosa ne pensate?
Un caro abbraccio e buona
settimana a tutti! :)
Molto piacevole. Non so cosa dire, la mia vita racconta di innumerevoli zattere e altrettanti fiumi attraversati. Nella vita, nel lavoro, in tutto. Non credo di essere arrivato da nessuna parte. Sono ancora "der suchende". Ricordo la lettura giovanile di Siddharta che presi a paradigma della mia inquietudine adolescenziale, ora, che sono alle soglie dei cinquant'anni, il viaggio prosegue, le inquietudini sono diverse, ovviamente, ma ho ben chiaro che il bagaglio non deve essere fardello. Non è sempre facile.
RispondiEliminaE come darti torto, Max, quando dici che non è facile mettere in pratica certi concetti? Non lo è per niente. Ma tracciare un solco, ossia creare una tendenza a orientarci nella direzione che ci spinge avanti, nonostante le avversità, è senza dubbio un evento degno di grandissima lode. Quindi, non credo che il tuo “naufragare” non ti abbia portato da nessuna parte. Non mi permetto di aggiungere ciò che non conosco, ma immagino che ogni “viaggio” ti abbia restituito un bel po’ di materiale sul quale, quanto meno, riflettere.
EliminaIl fardello qui indicato nella parabola è ciò che oggi (nel punto in cui ci troviamo) ci fa stare male. O meglio, può anche farci stare apparentemente bene (questa natura è decisamente subdola e trae in inganno), per poi accorgerci, con il procedere del tempo, che ci ha semplicemente avvelenato e che ci appesantisce inutilmente la vita.
Ogni uomo ha la sua storia. Per alcuni può trattarsi del lavoro, ad esempio. Un lavoro che apparentemente dona grandi soddisfazioni, ma che una volta posto sotto analisi appare sorprendentemente come qualcosa che sottrae più energie del dovuto; può trattarsi di un ambiente (fisico o psicologico); di persone con le quali si fatica a entrare in risonanza; possono essere mille cose… ma tutto origina da come le percepiamo e dal motivo per cui le percepiamo in quel modo.
Assolutamente vero Clementina, non a caso ho sottolineato che, quantomeno, ho almeno imparato gestire il famoso bagaglio in modo da impedire che diventi fardello. Il discorso che fai sulla percezione è importantissimo e aprirebbe un nuovo capitolo di discussione.
EliminaE hai perfettamente ragione, caro Max! Ce ne sarebbero tantissime di cose da dire ancora e senza dubbio la percezione è una di queste. Buona serata e a presto! :-)
EliminaChe bell'articolo, Clementina, complimenti. Non conoscevo questa parabola, che nella sua semplicità è molto efficace. Mi sembra di vedere anche dei riferimenti a chi si concentra troppo sul mezzo al punto da farlo diventare un dogma, dimenticando così anche la funzione originaria. E con ciò penso ai tanti insegnamenti di crescita interiore che vengono irrigiditi al punto da perdere valore per chi utilizza.
RispondiEliminaCiao Maria Teresa, che piacere ritrovarti qui!
EliminaGuarda, il tuo esempio calza a pennello e fa il paio con la parabola proposta, dopo di te, da Francesca. Quando si intraprende un percorso, qualunque esso sia e a maggior ragione questo vale se esso viene preventivamente identificato come cammino di crescita interiore, ciò che conta è la sua diretta sperimentazione. Per quanto possano essere importanti gli insegnamenti, o le tecniche suggerite da adottare per conseguire quella strada, e per quanto possano essere autorevoli e certificate le fonti che indicano tali insegnamenti/tecniche/ecc., se poi non le si mette in pratica, non solo si avrà l’impressione di rimanere in una condizione di stallo, bensì, sempre secondo il buddismo, si retrocederà inevitabilmente. E, quindi la situazione in cui ci si andrà a ritrovare sarà ben peggiore di quanto immaginato. Un’altra metafora che mi viene in mente, rispondendo al tuo bel commento, e che riguarda anche in questo caso il senso dell’evoluzione spirituale e del corretto approccio suggerito per affrontarlo, mette in luce un aspetto spesso erroneamente trascurato. In buona sostanza, è usanza dire che il neonato si nutre del latte materno senza che nessuno gli spieghi di cosa esso sia composto, né di come lo debba succhiare: il nostro istinto (che poi ci sarebbe da aprire una lunghissima parentesi anche in relazione ad esso) possiede una saggezza di gran lunga superiore alle idee (molto spesso) imbrigliate della nostra mente…
Bell'articolo e bella parabola, ancora una volta hai saputo sorprenderci! Per quanto riguarda l'atteggiamento del secondo gruppo di persone, assomiglia a quello dell'erudizione fine a se stessa: persone che sanno moltissimo, ma non si mettono mai in gioco, per cui la cosa finisce lì. Proporrei l'introduzione del gruppo degli invidiosi, che assistono mentre gli altri usano la zattera e remano fino all'altra sponda, e criticano lo stile di "nuoto" e l'aspetto umile della zattera.
RispondiEliminaLa zattera corrisponde a una zavorra, intesa come peso inutile, superfluo per il conseguimento dello scopo primigenio. Quindi, nel tuo riferimento a persone che studiano anche moltissimo, ma che non mettono mai in pratica ciò che hanno studiato, ciò che va a costituire la zattera non è tanto l’acquisizione di tutte le informazioni assunte, quanto semmai l’attaccamento manifestato a quella specifica condizione di studio, che molto probabilmente apporta gioia a questi individui, quando non li induce addirittura in uno stato di estasi. Questa è la zavorra che impedirà a tali persone il conseguimento dell’illuminazione. Detto in altre parole, la loro ritrosia ad abbandonare quella condizione (che il buddismo abbina a un preciso stato vitale) impedirà loro di evolversi e tenderà a cristallizzarne la crescita, spirituale e materiale. Un elemento da tenere sempre in seria considerazione, anche in questo caso, cara Cristina, è infatti il grado di consapevolezza. Per quanto riguarda il gruppo da te suggerito, degli invidiosi, calza benissimo con l’esempio e anche questa ipotesi si iscrive nell’ordine degli stati vitali appena menzionati. Sia chi si lega allo stato di estasi o di studio, nell’accezione descritta poc’anzi, sia chi si lega allo stato vitale dell’invidia (che per il buddismo rientra in una delle tre categorie più basse, ovvero quella di inferno) corre il rischio di rimanere bloccato e di non saper procedere di un passo. Non solo, ma si ritroverà a sperimentare costantemente le medesime situazioni/condizioni/sentimenti, stratificandoli uno sopra l’altro.
EliminaCredo che prossimamente scriverò un post nel quale approfondirò l’argomento…
Ti rispondo con un'altra storia di origine buddhista, "Il cavallino e l'acqua". Se devi solcare le acque, non fidarti dei consigli di nessuno, non avere zattere (la zattera non è citata, ma uso la metafora per agganciarmi alla storia citata da te) né dubbi: vai e tenta da solo, con le tue forze.
RispondiEliminaGiudicherai tu stesso come sarà l'acqua e cosa dovrai fare.
Namaste!
Carissima Francesca :-), stupenda anche questa parabola! Praticamente la risposta che ho fornito a Maria Teresa la potrei riportare, pari pari, qui. Non esiste nulla di meglio che sperimentare in prima persona le proprie scelte, ricordandosi nel farlo, di credere sempre fortemente in ciò che si sta facendo… e anche qui dovrei aprire un mega finestrone per entrare nell’approfondimento di questo passaggio…
EliminaNamaste!
Non ho mai avuto modo di approfondire la conoscenza di queste culture lontane, affascinanti, che proteggono la virtù di insegnarci tante cose. Ho conosciuto diversi buddisti, e tutti mi sono parsi molto sereni e in pace con se stessi. E' evidente che l'insegnamento buddista sia efficace per raggiungere l'allontanamento da ogni bene materiale.
RispondiEliminaMi sono accostata alle filosofie di questo tipo leggendo diversi anni fa i libri di Osho (ne avrai sentito parlare), che buddista non è ma che scrisse cose assai interessanti a me utilissime in un brutto momento della mia vita. Di tutti gli argomenti trattati da queste filosofie, proprio liberarsi dall'attaccamento a ciò che non solo è passato ma che ci fa anche soffrire mi è parsa la cosa più interessante. Il saggio mi appare come un essere umano "superiore", vorrei potergli assomigliare almeno un po'. :)
Oggi sto decisamente meglio, ma davvero attraversare queste culture in momenti particolari aiuta.
Per liberarci da ciò che ci fa soffrire, prima è necessario riconoscere i fardelli che appesantiscono il nostro procedere e le filosofie orientali, così profonde e al contempo (quasi paradossalmente) così pragmatiche, sono sempre di grande aiuto in questo. Non è, infatti, tanto semplice riconoscere ciò che nuoce da ciò che crediamo ci faccia star bene!
EliminaConosco Osho e ritengo che tutti quelli che, come lui, hanno contribuito in modo serio a chiarire concetti profondi e complessi che afferiscono a buddismo, induismo, ecc., siano degni di rispetto. Quindi, per quanto mi riguarda, essi saranno sempre i benvenuti.
Resta inteso che l’interpretazione di questi pensieri è cosa delicatissima e spesso diventa fonte di contrasti, equivoci, speculazioni, finanche raggiri, ecc. Ma non mi pare il caso di affrontare il tema in questa sede :)
Quello che mi sento di sottolineare è che chiunque può studiare i principi del buddismo gratuitamente (dal punto di vista economico, poi è chiaro che ciò comporti uno sforzo individuale di applicazione e via dicendo), mentre non sempre si può dire altrettanto di altri corsi, oggi tanto in voga e tanto diffusi, che attingono a piene mani al buddismo spacciando i propri elaborati per originali, quando originali non sono (mi riferisco ai vari corsi di mindfulness e simili). Ma ognuno è libero di fare come crede e, tutto sommato, ogni strada è buona purché persegui uno scopo nobile. Quindi, per rispondere all’ultima parte del tuo commento, aggiungo che, sì, queste culture sono in grado di offrire veramente un grande supporto.
Un giga abbraccio!
Una cultura molto affascinante e che fa riflettere.
RispondiEliminaSerena notte.
È vero, condivido appieno le tue parole e ti ringrazio tantissimo del passaggio, Cavaliere.
EliminaBuonissima giornata anche a te e ancora grazie!
Bellissima parabola che non conoscevo. Mi ha richiamato alla mente un video che ho visto poche settimane fa del Maestro David Simurgh dove parlava proprio del lasciare andare "zattere" che possono essere credenze, relazioni, abitudini, eccetera e sottolineava il grande coraggio che tutto questo comporta perché si entra in un territorio inesplorato. Quindi a volte è solo la paura dell'invito che ci fa restare all'interno di situazioni che non ci sono più di alcun sostegno nel nostro procedere ma è un male a noi noto.....
RispondiEliminaUn abbraccio
Mannaggia al correttore! "Invito" era "Ignoto"
RispondiEliminaMia bella Lisa, come dicevo a Luana, ben venga chi aiuta a riflettere su questi temi. Temi che sono stati sviscerati, da millenni, dalle filosofie orientali.
EliminaIl coraggio di procedere verso l’ignoto è fondamentale, ma prima ancora occorre la consapevolezza di chi siamo e di cosa vogliamo “veramente”. Infine, la distanza tra ciò che ignoriamo, tra l’oblio che temiamo e il momento in cui tutto si illumina, può essere minima. Poi si riparte verso nuove avventure!
Una parabola bellissima,legata a quelle filosofie che hanno molto da regalarci a livello di illuminazione. La zattera che alcuni costruiscono per affrontare la corrente e arrivare all'altra sponda, e altri restano a guardare l'altra riva senza avere il coraggio di raggiungerla. Metafora che si lega alla capacità individuale di rischiare, di attraversare le difficoltà allontanandoci dal presente legato al nostro ego per affrontare il pericolo e raggiungere l'altra sponda che rappresenta quello che aspiriamo a divenire. Profondamente bella la frase:"Non sono un obiettivo in sè, ma un mezzo per ottenere l'illuminazione. Non trovo le parole per ringraziarti Clem. Questo blog è un varco sconfinato sul mondo e le sue infinite proiezioni!
RispondiEliminaTi ringrazio tantissimo, Anna! Sono felicissima della discussione che si è creata intorno a questo tema, ciascuno di voi ha apportato un grande valore aggiunto. 😊
EliminaE che meraviglia l'idea da te suggerita del varco sul mondo e le sue sconfinate proiezioni!
Ancora grazie di cuore!
Non conoscevo questa parabola, grazie per avermela fatta conoscere!
RispondiEliminaÈ per me un vero piacere!
EliminaGrazie mille, Nick e buona serata!
Buongiorno Dani, ho letto con grande piacere il tuo post e alcuni degli interventi, traendovi ricchezza di spunti, come sempre. Per quel che mi riguarda le zavorre sono spesso pensieri inutili, elucubrazioni gratuite e dannose della mente, confronti con o anche solo vicinanza di (a volte basta anche la presenza nello stesso ambiente) persone mediocri, che sono tante in giro, che devono essere tenute a grande distanza, difendendo strenuamente la bellezza della nostra vita, delle nostre idee e del nostro animo. Un forte abbraccio e buona giornata
RispondiEliminaLa bellezza della nostra vita va difesa costantemente, sono completamente d'accordo. Vanno tenuti a distanza i pensieri nocivi, così come tutte le energie tossiche che ci portano a mortificare noi stessi, opprimendoci, o alterandoci. Anche quando esse albergano dentro di noi, come ombre che temono la luce, o dentro persone il cui unico obiettivo è sempre quello di farci sentire miserrimi, o dentro sostanze che, come il canto delle sirene, promettono facili conquiste, mentre offrono solo l'annientamento.
EliminaProgredire comporta mettersi in gioco e per riuscire a mettersi in gioco è necessario uno sforzo fondamentale: togliersi la maschera, abbandonare le lenti deformanti che ci fanno credere di essere molto più deboli di come siamo, o molto più forti di quello che siamo. Solo così potremo sgombrare la mente dalle catene della paura, per iniziare un nuovo percorso.
Un giga-abbraccio, bella Baba e buona serata!
Con questo post tocchi argomenti a me molto cari, perché trovo nel buddismo una quantità di spunti utili alla mia vita. Il concetto di non attaccamento è tanto fondamentale quanto mal compreso da chi rimane alla superficie, un po' come quello di karma. Mi capita spesso di sentire come critica che non è giusto distaccarsi dalla vita reale, ma non ho mai trovato nei testi buddisti che conosco questa idea, soltanto l'esortazione ad assumere un atteggiamento equilibrato, oltretutto verificato tramite la propria esperienza e non basato sulla cieca fiducia in qualche dogma. Onorare il passato, attribuendogli la sua importanza, è importante quanto saperlo salutare quando è il momento. In fondo restargli attaccati nel pensiero è un po' come vanificarne l'utilità. Grazie del bel post! :)
RispondiEliminaParole sante, mia cara Grazia! Il passato merita grande rispetto, ma quando è giunto il momento di procedere bisogna immergersi nel "qui, ora".
EliminaOgni tentativo di rimanere agganciati a qualcosa che è già sfumato e/o che non può più entrare in sintonia con le nostre corde, perché nel frattempo noi siamo diversi rispetto a come eravamo, sottrae preziose energie e distoglie lo sguardo dal presente, rendendoci deboli e confusi, incapaci di evolverci.
Inoltre, dici benissimo anche quando affermi che il buddismo non esorta ad abbandonare la vita reale: tutt'altro! Non esiste filosofia più radicata alla quotidianità; lo è a tal punto che suggerisce di osservare la realtà a tutto tondo, da tutte le angolature, rimanendo totalmente presenti, dopodiché ci invita esplicitamente a valutare l'efficacia dei suoi insegnamenti attraverso la personale esperienza. Più concreta di così non si può.
Grazie del bellissimo intervento! 😊