lunedì 9 luglio 2018

La donna del XX secolo 3: le italiane nel regime fascista - Prima parte




L’angolo di Cle torna a occuparsi di storia delle donne.

Nel precedente post (QUI è possibile trovare tutti gli articoli della rubrica dedicata alla storia delle donne) abbiamo affrontato le tematiche del consumo e della cultura di massa nel periodo che va dagli inizi del Novecento fino agli anni ’40, in America e in Francia. Ora, mantenendo la stessa rotta e procedendo quindi nello stesso solco, volgeremo lo sguardo verso il nostro Paese.
Ciò che accade in Italia a quel tempo si differenzia dalle altre due realtà prese finora in esame, sia per il diverso livello di sviluppo economico, che per la presenza del regime autoritario.

Giornata della Madre e del Fanciullo,
istituita nel 1933 dal regime fascista
Detto questo, prima di procedere all’esposizione della situazione femminile, vorrei restituire una sintesi del quadro storico dell’Italia di quel periodo. 

Cito testualmente lo storico Federico Chabod dal suo L’Italia Contemporanea 1918-1948 (che raccoglie le lezioni tenute da Chabod alla Sorbona), Piccola Biblioteca Einaudi, 1970, pag. 27, per fornire alcuni riferimenti utili alla comprensione della situazione in cui volgeva il Paese: 

L’alimentazione media di un italiano nel 1914 prevedeva un consumo di calorie giornaliere inferiore di più di un quinto a quella dell’alimentazione di un inglese. Il reddito medio per abitante era (calcolato  in unità internazionali, secondo il metodo di Collin Clark), nel 1911-13, di 549 per gli Stati Uniti, 481 per la Gran Bretagna, 351 per la Francia, 301 per la Germania e 158 soltanto per l’Italia. Ciononostante l’Italia consumava più di quanto producesse: fra il 1909 e il 1913 si registra in media un’eccedenza delle importazioni sulle esportazioni di 1 miliardo e duecentocinquanta milioni. Come poteva colmarlo? Gli emigranti che lasciano l’Italia (in quegli anni si calcolano fino a 873000 partenze l’anno, e la media del periodo 1909-13 è di 650000 l’anno) e che inviano alle famiglie rimaste in Italia quel che riescono a risparmiare, rappresentano uno dei mezzi per far fronte al deficit; l’altro è il turismo.”

Già nel 1914 le condizioni economiche del Paese versavano in uno stato di profonda arretratezza, nonostante i notevolissimi progressi compiuti dopo l’unità, e il clima si presentava ostile, con  partiti politici, stampa e opinione pubblica divisi tra sostenitori del neutralismo e ferventi interventisti. In quest’ultimo gruppo i dirigenti di alcuni comparti dell’industria pesante, che contavano sui profitti derivanti dall’entrata in guerra, erano senza dubbio i più agguerriti.

1914 La Difesa delle Lavoratrici
Con l’ingresso in guerra nel 1915 la spesa italiana per le forniture militari iniziò a lievitare. Nel 1916 era già raddoppiata e nel 1917 aumentò ancora di un terzo, continuando a crescere. La nazione, per coprire una così ingente massa di equipaggiamenti bellici, si indebitò sia all’interno che all’estero.

Le imprese più forti – come la Montecatini, l’Ansaldo, l’Ilva, la Fiat – che avevano visto crescere produzione e profitti, fanno affari d’oro. Nel commercio, senza dimenticare il mercato nero, nascevano intere fortune da un giorno all’altro. Per taluni, dunque sopraggiunse un arricchimento improvviso, per altri un totale sfacelo economico. Non va dimenticato nemmeno che gran parte della ricchezza venne distrutta nel conflitto, mentre il rimanente fu accaparrato dagli speculatori. Favoritismi, corruzioni e sprechi nelle assegnazione delle commesse statali non si contavano nemmeno. Il peso del conflitto e le conseguenti difficoltà economiche vennero scaricate soprattutto sulle fasce sociali più deboli.

Per meglio comprendere lo scenario nazionale di quell’epoca è importante evidenziare che anche la produzione agricola si rivelava insufficiente, sia a soddisfare i bisogni civili che quelli dell’apparato militare. Un episodio eclatante e consono a spiegare la drammaticità di quei momenti fu quello verificatosi nel 1917, a Torino. Nella città piemontese scoppiò una rivolta popolare, guidata prevalentemente da donne, operaie e contadine costrette a enormi sacrifici per sopravvivere insieme ai figli piccoli e agli anziani – mentre gli uomini adulti erano al fronte – che protestavano per la mancanza del pane.
Si deve anche tener conto del fatto che l’Italia di quegli anni, a differenza di Francia, Germania, Gran Bretagna, era un paese prevalentemente agricolo, nel quale il 55% della popolazione era dedito all’agricoltura, mentre solo il 28% della popolazione era impiegata nell’industria e solo l’8% lo era nel commercio. 
Tuttavia, non bisogna lasciarsi confondere dalle cifre perché, come riporta L’Italia Contemporanea 1918-1948, Piccola Biblioteca Einaudi, 1970, pag. 32, di Federico Chabod:  
Solo il 20% del territorio nazionale è pianura fertile […] il 40% è collina e il restante 40 è montagna. Queste percentuali sono già sufficienti a dare una certa idea della povertà agricola dell’Italia.
La scarsità di cereali, indotta dalla mancanza di uomini che lavorassero la terra, dunque si trasformò presto in urgenza.
Ecco un breve passaggio estratto da L’Italia Contemporanea 1918-1948, Piccola Biblioteca Einaudi, 1970, pag. 30, di Federico Chabod:
Vi è un significativo rincaro della vita perché l’Italia deve importare dall’estero grano, carbone, petrolio. Manca soprattutto il grano: prima del 1914 l’Italia produceva in media 50 milioni di quintali di grano all’anno (massimo rendimento per ettaro: 12,3 quintali nel 1913), e doveva importarne circa 14 milioni; ma durante la guerra la produzione s’era abbassata fino a un minimo di 38 milioni (minimo per ettaro: 8,4 nel 1920).”
Ebbene, le donne, costrette a uscire alle cinque del mattino per approvvigionarsi del pane – dato che alle otto già non se ne trovava più traccia nei panifici – si ribellarono reclamando per le strade il proprio disappunto e la propria disperazione. Questa rivolta venne letteralmente repressa nel sangue, tant’è vero che le forze dell’ordine lasciarono a terra oltre quaranta morti e più di un centinaio di feriti.
Ho voluto citare la vicenda torinese perché rispecchiava il disastro economico dell’intero paese, le cui economie andavano ulteriormente aggravandosi pervenendo sino alla svalutazione monetaria.

L’Italia, come il resto del vecchio continente, uscì dalla prima guerra mondiale in uno stato di rovina generale e di rilevante dipendenza economica e finanziaria dagli Stati Uniti d’America. Nel 1918 il tasso di inflazione toccò le punte del 20%, di conseguenza i prezzi salirono alle stelle, i capitali dei piccoli risparmiatori si polverizzarono, la pressione fiscale crebbe in modo vertiginoso, i salari dei lavoratori si presentarono sempre più inadeguati a fronteggiare il carovita. L’indebitamento estero raggiunse una cifra pari a cinque volte il valore delle nostre esportazioni.

D’altronde, la politica del periodo che corre tra il 1914  e il 1919 era del tutto anacronistica.
Come scrive Federico Chabod in L’Italia Contemporanea 1918-1948, Piccola Biblioteca Einaudi, 1970, “era una politica stile 1866, completamente sorpassata nel 1914”.

Da una parte, vi erano i braccianti, contadini che per lo più possedevano aree di terreno troppo piccole per consentire loro di vivere e che mettevano le proprie braccia a disposizione delle proprietà altrui. Il loro problema era che a ogni piccola crisi agricola si vedevano diminuire il salario dai proprietari. Dato che proprio i contadini formavano il grosso dell’esercito e pagavano con la loro pelle la vittoria, ci si pose il problema di cosa dare a questi ex combattenti, una volta finita la guerra. Così durante una riunione tenuta a Roma nel 1917 dai rappresentanti della Confederazione generale del lavoro e di altre organizzazioni, si chiese la requisizione delle terre non coltivate a favore delle popolazioni risolute a dissodarle. Nel luglio 1919 masse di contadini occuparono le terre non coltivate dei grandi proprietari. Questi lavoratori, in parte aderivano alle leghe rosse, in parte al cosiddetto “bolscevismo bianco”, quello dei cattolici sempre più presenti nel settore agrario.

1920, Milano, operai armati occupano le fabbriche
Dall’altra parte, le masse operaie costituivano una realtà presente soprattutto nel Nord Italia: in particolare a Torino, Genova e Milano. Esse divennero le prime divisioni del movimento socialista prima, e di quello comunista dopo. Al loro interno si parlava sempre più dei consigli operai e dell’abolizione del capitalismo.
Le rivendicazioni di questa categoria di lavoratori andavano ben oltre gli aumenti salariali, superando le istanze di “terra ai contadini” espresse dai braccianti. Gli operai, inoltre, adottarono un atteggiamento di biasimo verso la guerra, verso i capi che l’avevano preparata e diretta, e anche verso coloro che l’avevano combattuta.
Esaminando la vita politica italiana antecedente la prima guerra mondiale troviamo, pertanto, il partito socialista, con una fisionomia definita di struttura rigida; un gruppo minuscolo di deputati repubblicani composto dai discendenti di Mazzini; iniziava inoltre a fare la sua comparsa anche un esiguo gruppo nazionalista. Alle elezioni del 1913 parteciparono anche i liberali, i democratici e i radicali, che però non erano ancora dei partiti completamente strutturati. La politica di Giolitti, fra il 1910 e il 1914 tendeva idealmente ad assorbire il socialismo per portarlo verso una formazione di centro. Ma Turati rimase sempre all’opposizione.

Nel 1919, nella scena politica, fece la sua comparsa il partito popolare italiano, capeggiato da Don Sturzo. Si trattava di un partito a struttura rigida che disponeva di ben 22 quotidiani e 93 settimanali, molteplici banche, grandi come il Banco di Roma e piccole come le casse rurali, e che aveva come alleato la Confederazione italiana dei lavoratori, la quale poteva contare su un numero sostanziale di aderenti, soprattutto coltivatori. Nelle campagne, infatti, i cattolici erano più forti dei socialisti.
Il partito socialista venne accusato di essersi opposto alla guerra e, successivamente, di aver sabotato la guerra.
A questo punto si delineò la tragedia del socialismo italiano in quanto, anzitutto, lasciò che si creasse nell’opinione pubblica l’impressione che il partito fosse “antinazionale” – e questo gli farà perdere i voti della piccola borghesia – in seconda battuta, nel partito di Turati, Treves e Modigliani si parlava più di Lenin che di Marx.
L’estrema sinistra che voleva una lotta decisa contro la borghesia, nel 1921 si staccherà dal partito socialista per fondare il partito comunista.

1919-1920 i mutilati chiedono pane al governo
Da questo clima di costante agitazione nacquero scioperi a getto continuo e costanti disordini.

Nel frattempo, nel partito popolare, oltre ai democratici sinceri, come Sturzo, vi erano anche i “conservatori” che in questa fazione politica vedevano solo un mezzo per difendere posizioni acquisite: il partito non era affatto omogeneo.
In questo continuo tira e molla di socialisti che perdevano terreno e popolari che avanzavano la posizione del governo si fece sempre più precaria per l’assenza di una solida maggioranza e in tale circostanza fecero la loro comparsa i fascisti.

Benito Mussolini
Nello stesso anno, il 1919, Mussolini fondò a Milano i Fasci italiani di combattimento, un gruppo che venne presto sostenuto dalla borghesia imprenditoriale agraria e che diffuse le violenze dello squadrismo fascista contro organizzazione sindacali, esponenti politici avversari (tra cui comunisti, socialisti e cristiano-popolari), cooperative.
Nel primo semestre del 1920, l’Italia era fra i paesi europei al primo posto in graduatoria degli scioperi e alla fine di quell’anno il fascismo divenne una forza politica di primo piano.

1921 Mussolini e la marcia su Roma
Nel 1921, in occasione del Congresso nazionale il Fascismo, da movimento diventò il Partito Nazionale Fascista. Nel 1922 Mussolini, effettuando la marcia su Roma, assunse la guida del potere.
Con l’introduzione delle cosiddette “leggi fascistissime” del 1926, ispirate dal giurista Alfredo Rocco, venne soppressa la libertà di associazione, il potere legislativo venne completamente subordinato al duce, il quale anche grazie al Tribunale speciale, alle milizie, all’efficientissima polizia segreta, l’Ovra, manteneva il pieno controllo della situazione.
Il Partito fascista, a quel punto, controllava numerose organizzazioni di massa votate a educare la gioventù ai valori fascisti: nei Figli della Lupa rientravano i giovani fino agli otto anni, l’Opera Nazionale Balilla inquadrava i ragazzi dagli otto anni ai quattordici e ai diciassette (“Balilla” e “Avanguardisti”), le ragazzine confluivano nelle “Piccole italiane”, i giovani fino ai ventuno anni rientravano nel Fascisti Giovani, nei Gruppi Universitari, e nelle “Giovani italiane”. Inoltre, l’Opera del Dopolavoro organizzava il tempo libero dei lavoratori con gite e gare sportive. 

Organizzazioni fasciste femminili
Come mette ben in luce la storica Luisa Passerini in Storia delle Donne, Volume V, Il NovecentoLaterza, Roma, 1992, in questo contesto le proposte italiane di innovazione del ruolo femminile oscillavano tra l’uniformazione delle donne nelle organizzazioni di massa del fascismo (letteralmente venivano fatte adottare delle uniformi) e la costruzione di una casalinga, “moglie e madre esemplare”. In parole povere, la donna italiana doveva rinnovarsi, produrre molti figli, provvedere all’alimentazione e all’abbigliamento per tutta la famiglia, usando le risorse offerte dall’economia autarchica: fibre di ginestra e di ortica, anziché il cotone, lanital, anziché la lana, lignite al posto del carbone.
Fatte queste premesse è chiaro che la donna italiana non poteva diventare consumatrice e amministratrice delle stesse risorse di cui disponevano le statunitensi e le francesi, in quanto il processo di modernizzazione nel quale si trovava immersa era di tipo repressivo.

figli per la patria
La storica statunitense Victoria De Grazia, in Le donne nel regime fascista - Venezia, Marsilio, 1993, ci fa sapere, inoltre, che tra il 1922 e il 1924, con la riforma della scuola, la riforma Gentile, si definì il ruolo dell’educazione nazionale: far penetrare nei giovani l’ideologia fascista, selezionare solo l’élite, facendo accedere all’istruzione secondaria e agli atenei solo un numero ristretto di studenti provenienti dalle famiglie più agiate. Oltre a ciò, la riforma Gentile produsse la notevole riduzione del numero di insegnanti donne a favore di insegnanti uomini, tanto è vero che l’accesso ai concorsi pubblici per intraprendere l’insegnamento di lettere, latino, greco, storia e filosofia nei licei o per quello di italiano negli istituti tecnici venne precluso alle donne.
La politica fascista, intrecciandosi e sostenendosi all’ideologia cattolica, impose alle italiane un destino esclusivamente biologico che voleva la loro subalternità nell’ambito della famiglia e della società.
Lo scopo della vita di ogni donna è il figlio. […] La sua maternità psichica e fisica non ha che questo unico scopo”. Con queste parole si pronunciava una manuale di igiene divulgato dal regime alla fine degli anni ’30.

Col pieno sostegno della Chiesa, dunque, ogni pubblicità e propaganda di misure contraccettive fu proibita e l’unico mezzo per il controllo delle nascite rimase l’aborto che, nonostante le pesanti pene previste dal codice penale del 1931 (da 2 a 5 anni per chi lo procurava o aiutava e da 1 a 4 per la donna che lo praticava da sola), restava ampiamente diffuso.

(Continua)

Con questo post il blog chiude per la pausa estiva.
Probabilmente mi vedrete comparire ancora per un po’ a commentare qua e là i vostri articoli, ma credo sia giunto il momento di sospendere le pubblicazioni e di allontanarmi dalla rete per recuperare la spinta emotiva ed evitare di annoiare i lettori.

A questo punto non mi resta che augurare, a me stessa e a tutti voi, ottime vacanze. Ci ritroviamo tra qualche settimana! : )


BIBLIOGRAFIA:
Federico Chabod, L’Italia contemporanea 1918-1948, Piccola Biblioteca Einaudi, 1970
Georges Duby e Michelle Perrot, Storia delle donne, Vol. V, Laterza, Roma, 1992
De Grazia V., Le donne nel regime fascista - Venezia, Marsilio, 1993
Giancarlo Carcano, Torino 1917, Cronaca di una rivolta, Edizioni del Capricorno, 1977

ICONOGRAFIA:
Giornata della Madre e del Fanciullo, Wikipedia: nel 1933 viene istituita la Giornata della Madre e del Fanciullo, fissata significativamente al 24 dicembre. La figura della buona madre fascista viene così fissata ideologicamente alla castità della Madonna, e al sacrificio supremo del figlio maschio.
1914 La Difesa delle lavoratrici, Wikipedia
Giancarlo Carcano, Torino 1917, Cronaca di una rivolta, Edizioni del Capricorno, 1977
1920, Milano, operai armati occupano le fabbriche, Wikipedia
1919-1920 I mutilati chiedono il pane al governo, da Storia del Fascismo, Enzo Biagi, Wikipedia
Benito Mussolini, Wikipedia
1921, Marcia su Roma, Wikipedia
Organizzazioni fasciste femminili, Wiki Commons
Figli per la patria, regime fascista, Wiki Commons





lunedì 2 luglio 2018

A passeggio sul Lago di Como/2 Villa Balbianello






Anche questo è un invito a un viaggio. Questa volta si tratta di un viaggio concreto, in territorio comasco, che vede come grande protagonista Villa del Balbianello, bene di proprietà del FAI (Fondo Ambiente Italiano).


Villa del Balbianello, Lago di Como: https://en.wikipedia.org/wiki/Villa_del_Balbianello
Autore   Jeroen Komen, from Utrecht, Netherlands


La scenografica villa Arconati Visconti, detta “del Balbianello”, si porge al visitatore destando immediata meraviglia. 
Aperta a un vastissimo panorama, collocata sull’estrema punta di un promontorio boscoso, chiamato Dosso di Lavedo, e protesa nell’acqua di fronte alla sponda occidentale del lago di Como, con uno sguardo rivolto anche verso Bellagio, essa è raggiungibile in barca e a piedi.

Optando per il percorso lacustre il visitatore assiste al suo disvelamento immediato; al contrario, scegliendo il tragitto che si snoda attraverso l’area boscosa del parco che la circonda, essa si manifesta pian piano, ma in modo altrettanto spettacolare.


Personalmente ho gradito moltissimo questa visita. La bellezza del luogo è senza dubbio altamente suggestiva, soprattutto in una splendida giornata d'estate, ma si è rivelato altrettanto efficace il clima di calma nel quale mi sono trovata immersa.
Qui ogni cosa appare calma; i pensieri si fanno limpidi, le emozioni si acquietano.
Villa del Balbianello è un sito che invita naturalmente a fermarsi, a lasciare andare le tensioni, gli affanni, lo stress. È un luogo che aiuta a ritrovare il proprio respiro, il proprio ritmo interno.

L’impressione che ho avuto, accedendovi, è stata quella di entrare in uno spazio (e in un tempo sospeso) nel quale il caos si interrompe. L’inquinamento del rumore, del traffico, del chiacchiericcio convulso, degli squilli dei cellulari, delle parole inutili scompare all’improvviso e, di colpo, ci si sente a proprio agio, protetti e stimolati ad aprirsi all’ascolto di noi stessi, della nostra parte più profonda, ma anche degli altri intorno a noi, della loro indole più autentica e, non ultima, della natura.

Bene, dopo essermi immersa in questa deliziosa fase di concentrazione, ho voluto approfondire la storia di questo luogo e, ora, ve la racconto!

La chiesetta all'interno del complesso.
L'orologio presente in uno dei campanili è stato
realizzato da Cesare Fontana nel 1883 
Parliamo di un complesso residenziale, residuo dell’antico eremo francescano di San Giovanni da cui il milanese cardinale Angelo Maria Durini, legato pontificio e nunzio apostolico a Malta, nel 1787, ricavò l’attuale dimora che ebbe tra i suoi ospiti Parini e Silvio Pellico

Una volta acquistata punta Balbianello, con il soppresso convento francescano, Durini aggiunse alla chiesetta con i due campanili e all’edificio religioso una splendida loggia con due padiglioni ai lati, uno adibito a studiolo e l’altro a sala da musica.

Nelle belle giornate estive qui si riuniva la crème della società, soprattutto milanese, attirata dalla ricca biblioteca, oltre che dall’amenità del sito, e durante lo svolgimento delle cene mondane, per la prima volta in Lombardia, veniva offerto il caffè.


Il meccanismo di ricarica dell’orologio del campanile,
collegato all’interno della villa, restaurato
nel 2012 da Rolex Italia 



Fra i tanti e prestigiosi ospiti di questo incantevole luogo vi era anche l’abate Parini, che dedicò al cardinale l’ode “La Gratitudine”.
Com’è facilmente immaginabile la dimora ha sempre avuto una vocazione eccentrica, tanto che, fin dal principio, fu progettata come ritiro di delizia e svago letterario, il cui motto, suggerito dallo stesso Durini, in seguito scolpito presso il porticciolo d’accesso, accoglie i visitatori in arrivo dal lago così: “Fay ce que vouldras” (Fai ciò che vuoi).

La splendida loggia con il Ficus Repens fa da sfondo al bacio
tra la principessa Padmè e il giovane Anankin nel secondo episodio
di Star Wars, di George Lucas ( 2002)






Dopo il 1797 la proprietà passò al conte Luigi Porro Lambertenghi e in seguito alla famiglia Arconati Visconti. Essa divenne anche asilo dei patrioti che nutrivano sentimenti anti-austriaci, tant’è che Silvio Pellico trascorse qui l’ultima notte prima di venire arrestato il 13 ottobre 1820.






Il successivo proprietario acquistò la villa nel 1974: era l’imprenditore, collezionista, nonché alpinista ed esploratore artico Guido Monzino. Egli decise di arricchire la nuova residenza dei tanti ricordi della sua avventurosa esistenza.
Questi cimeli, numerosi volumi, carte geografiche, strumenti di viaggio, arredi e preziose collezioni di oggetti d’arte antica e primitiva, sono tutt’oggi esposti in un percorso museale accessibile a tutti, dopo che nel 1988 il complesso è stato lasciato in eredità al FAI (Fondo Ambiente Italiano).

Prospettiva di Villa Balbianello in direzione di Bellagio.
Ritroviamo questo sfondo nelle scene
girate da John Irvin per il suo “Un mese al lago” (1995)
In questa armoniosa sintesi di natura alpina ed esotica, architettura e paesaggio lacustre si staglia un percorso romantico che ha spinto, fin dagli anni ’40, grandi registi, italiani e internazionali, ad ambientare qui alcuni grandi film.
Infatti, il curatissimo giardino a terrazze, con i platani potati “a candelabro”, il grande leccio potato “a ombrello”, i glicini, i gerani, i viali fiancheggiati da eleganti statue e la meravigliosa loggia ospitante uno strabiliante Ficus Repens, appaiono nelle scene girate in esterno di svariati lungometraggi. 

Angolo ospitante il platano potato a candelabro
Nel 1941 Mario Soldati ambientò qui la tormentata storia d’amore tra Franco Maironi (Massimo Serato), patriota e fervido cattolico, e Luisa Rigey (Alida Valli) del suo “Piccolo mondo antico”.

Ritroviamo questo sito nelle inquadrature del regista Christian-Jaque, per “La Certosa di Parma” (1947).

Lo riconosciamo pure nelle scene girate da John Irvin per il suo “Un mese al lago” (1995) che narrava di un triangolo amoroso tra un maggiore dell’esercito britannico (Edward Fox), una giovane governante americana (Uma Thurman) e una ricca e matura signora borghese (Vanessa Redgrave).

Questo sito ha ospitato anche il cast e la produzione di uno dei film di fantascienza più visti nella storia del cinema, Star Wars. In questo caso il regista George Lucas ha usato la loggia nel secondo episodio prequel della popolarissima saga (2002). Essa, era il meraviglioso sfondo del romantico bacio tra la senatrice Padmè Amidala e il giovane apprendista jedi, Anakin Skywalker.

Visuale del giardino sovrastante il porticciolo
Persino James Bond, interpretato da Daniel Craig, trascorse un periodo di convalescenza a Villa Balbianello, dopo essere stato ferito nell’episodio della saga di 007, “Casino Royale” (2006), di Martin Campbell.

E ora, ancor prima di raccontarvi le imprese di Guido Monzino, ultimo proprietario della villa, vorrei parlarvi delle sue origini. Sì, perché Monzino è il nome di una di una famiglia che ha conferito prestigio, non solo alla città di Milano, ma all’intero Paese. 

Il grande leccio potato a ombrello che accoglie la scena
di “Casinò Royale” (2006), di Martin Campbell.
Francesco Monzino, detto Franco, padre di Guido, nel 1919 iniziò a lavorare per La Rinascente di Milano, diventando, nel 1920, condirettore generale. In questo passaggio venne sicuramente favorito dai rapporti di parentela con i proprietari: era infatti cognato di Ferdinando Borletti, marito di sua sorella Virginia. Borletti era colui il quale guidava il gruppo di imprenditori che, nel 1917, aveva rilevato l’impresa dei fratelli Bocconi, per poi ricostruirla e rilanciarla. 

Una decina di anni più tardi a Franco Monzino venne affidato il compito di studiare a fondo l’organizzazione dei nuovi negozi che il gruppo La Rinascente stava creando sull’esempio della catena di vendita statunitense F.W. Woolworth & Co. Si trattava dei negozi della società Upi, poi divenuta Upim (Unico Prezzo Italiano Milano), nata nel 1928 e della quale Monzino assunse inizialmente la responsabilità per la parte tecnica.

Grazie a questa positiva esperienza Monzino maturò la decisione di staccarsi dal gruppo La Rinascente e di fondare una sua impresa di magazzini a prezzo unico.
Il 9 maggio 1931, infatti, sempre a Milano, egli creò la Standard Sams (Società Anonima Magazzini Standard). Soci ed azionisti, oltre a Francesco, erano il fratello Italo, la sorella Virginia e, con una quota minore, Tullio Astesani, industriale serico comasco, nonché suocero di Italo.
Il fratello Italo, oltre ad essere un imprenditore, era il filantropo che, nel 1981, decise di finanziare il progetto del Professore Cesare Bartorelli per la realizzazione di un centro di cura per le patologie cardiovascolari, conosciuto a tutti come Centro Cardiologico Monzinoun fiore all’occhiello nella ricerca, nella cura e nella prevenzione di una delle prime cause di malattia e mortalità in Italia e, senza dubbio, un grande orgoglio per i milanesi. 

Particolare del platano a candelabro e la loggia sullo sfondo
Nella seconda metà degli anni Trenta il regime fascista obbligò Franco Monzino a mutare il nome «Standard» della società, a causa del suo suono troppo inglese. Dopo molte discussioni, 
l’imprenditore decise a favore di un’italianizzazione della sigla originale, trasformandola in «Standa» (Società Anonima Tutti Articoli Nazionali dell’Arredamento e Abbigliamento), un nome che sicuramente tutti conosciamo. 


La politica di regime causò anche in seguito serie difficoltà a questa famiglia che, alla fine della guerra, si ritrovò a stimare danni intorno ai 31 milioni di lire, oltre alla necessità di porre in chiusura molteplici filiali.

Nell’immediato dopoguerra, Monzino iniziò a lavorare per risanare la situazione e, nell’arco di pochi anni raggiunse dei risultati così positivi da destare ovunque ammirazione e stupore, avendo riportato in attivo ben 35 filiali operative e 2000 dipendenti. Quasi a suggello della sua attività, nel 1953 venne nominato cavaliere del lavoro. Pochi giorni dopo, il 21 giugno 1953, morì nella sua abitazione milanese. Fedele fino in fondo alla sua missione, fu sepolto, come richiesto nel testamento, nel cimitero di Musocco accanto agli operai e agli impiegati della sua impresa (un gesto completamente in controtendenza, data l’abitudine delle grandi famiglie, della cultura e dell’imprenditoria milanese, a designare il cimitero Monumentale quale ultima dimora.).
   
Una delle teche contenenti parte della collezione
di artefatti di epoca Ming di Guido Monzino
Arriviamo, quindi, a parlare di Guido Monzino.
Guido era figlio di Franco e di Matilde Alì d’Andrea-Peirce. Nacque il 2 marzo 1928 e trascorse l’infanzia sul lago di Como, a Moltrasio. Dopo aver concluso gli studi classici iniziò a lavorare alla Standa, diventandone presto direttore generale e restandovi fino al 1966, quando il gruppo venne ceduto alla Montedison.

Nei primi anni Cinquanta, però, avvenne qualcosa che cambiò radicalmente il corso della sua vita: si innamorò della montagna. Tutto avvenne in fretta e un po' per gioco. Accettò la scommessa di scalare il Cervino, senza preparazione alcuna, accompagnato da Achille Compagnoni, che aveva appena conquistato il K2. Affascinato dal gusto per la sfida, da quel momento in poi, si spinse in ogni parte del mondo: dall’Himalaya all’Africa, dalla Groenlandia alle Ande. Nel corso delle sue 21 spedizioni Guido Monzino posò la bandiera italiana sulle cime più alte, dove non era mai giunta. 

Scorcio dei giardini che digradano verso Como
Nel 1971 raggiunse il Polo Nord, raccogliendo il testimone di un altro grande esploratore: il Duca degli Abruzzi, Luigi Amedeo di Savoia, che nel 1900 aveva toccato l’86° parallelo. 
Quella guidata da Monzino fu la prima spedizione a essere giunta al 90° parallelo con le tradizionali slitte degli inuit guidate dai cani: una marcia faticosissima di 71 giorni, un cammino sul pack durante il quale Monzino sfidò e vinse temperature rigidissime e difficoltà di ogni tipo.


Nel 1973 puntò a un nuovo ambizioso traguardo, l’Everest: fu a capo della prima ascensione italiana sul Tetto del Mondo. Monzino organizzò una spedizione imponente che con successo raggiunse la vetta.

La loggia e gli elaborati giardini terrazzati di Villa del Balbianello
Un anno dopo realizzò un altro grande sogno, ovvero acquistare la villa di cui si era innamorato sin da ragazzo: Villa del Balbianello. 

Il grande esploratore la restaurò con cura e vi trasferì i cimeli dei suoi viaggi.
Guido Monzino morì l’11 ottobre 1988, a sessant’anni e venne sepolto a Villa del Balbianello, come aveva tanto desiderato, ossia nel luogo che tanto amava e che, dal 1974, era diventato il suo rifugio.


Invito tutti a visitare questa splendida dimora: sarà un’esperienza indimenticabile, è una promessa!

Cosa pensate di Villa Balbianello? Ci siete mai stati, o ci vorreste andare?


Come raggiungere Villa del Balbianello:
Percorrere l’Autostrada Milano-Como e prendere l’Ultima uscita per l’Italia/Lago di Como. Proseguire dritto verso Como Centro e, alla rotonda, prendere la 3° uscita in direzione Menaggio, avanzando fino a Lenno. Qui, continuando lungo la strada che fiancheggia il lago, si arriva all’incrocio con Via degli Artigiani (è visibile la segnaletica per Villa Balbianello). Girare quindi a destra e raggiungere Via Comoedia. Proseguire fino all’altezza del civico 12 dove si trova un ampio parcheggio. Camminando per un centinaio di metri si giunge al bivio: la strada a sinistra conduce al porto, dove è possibile noleggiare un taxi boat che attracca al porticciolo di Villa Balbianello; la strada a destra, invece, accede al percorso pedonale che attraversa il parco della villa. Quest’ultimo è un tragitto semplice, solo leggermente in salita, che si protrae per circa un chilometro ed è percorribile in 20/30 minuti. 


Un abbraccio a tutti e a presto! ^__^



PS: a parte l’immagine di apertura (la cui fonte è citata in didascalia), tutte le foto presenti nel post sono frutto dei miei scatti personali e ve lo dico con la speranza di essere riuscita a catturare almeno un pochino della folgorante bellezza di questo luogo di delizie per mostrarvelo al meglio. 



BIBLIOGRAFIA:

Villa Balbianello: Le province di Como e Lecco, Il lago, le ville, i parchi, Bellagio, Menaggio, Varenna, Guide d’Italia, Touring Club Italia editore, 2003









lunedì 25 giugno 2018

Gustavo Rol, l’uomo del “tutto è possibile”





«Spalancare le porte dell’infinito, distruggere la malinconia, superare il terrore della morte».

Questa è una delle frasi pronunciate in modo ricorrente da uno dei personaggi del ‘900, a mio parere, più affascinanti e, al tempo stesso, più difficili da inquadrare: Gustavo Adolfo Rol.

Rol nel suo studio
Rol nasce il 20 giugno del 1903 in una famiglia agiata di Torino. Il padre, Vittorio, è un avvocato che, nel 1909 viene incaricato di aprire e dirigere la sede torinese della Banca Commerciale Italiana, la madre, Martha Peruglia, è figlia del Presidente del Tribunale di Saluzzo. Il giovane cresce in un ambiente ricco e colto, frequenta fin da giovane le famiglie più in vista della città, si interessa alle arti, alla pittura e alla musica. Nel 1922 si iscrive alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Torino, dove si laurea. In seguito studia anche scienze commerciali a Londra e si interessa di biologia, con il sostegno del premio Nobel, Jacques Monod, che conosce a Parigi negli anni ‘50. Inizia a lavorare per diverse banche e in questo modo gira tutta l’Europa.


Intorno agli anni ’30 decide di cambiar vita, lascia il lavoro nelle banche, si dedica al commercio di oggetti antichi e alla pittura. A Parigi, in un café, conosce la ragazza che poi diverrà sua moglie. Si chiama Elna Resch-Knudsen, norvegese, figlia di un capitano di marina e nipote di un ministro di Stato.


Rol a 5 anni (a destra) con madre e fratelli
Durante la Seconda Guerra Mondiale si arruola nel corpo degli Alpini e dopo l’8 settembre del 1943 mette in gioco le sue potenzialità telecinetiche per salvare molte persone condannate alla fucilazione da parte dei nazi-fascisti, stupendo e divertendo con i suoi esperimenti i vari ufficiali tedeschi.
Potrebbe approfittare delle sue strabilianti doti per arricchirsi, ma non lo farà mai. Anzi, continua a vivere un’esistenza all’insegna della riservatezza e della sobrietà. Rifugge la popolarità e prende nettamente le distanze da qualsivoglia ambiente legato all’esoterismo, di cui Torino abbonda, tra l’altro.

Muore il 22 settembre 1994, ultranovantenne, nella sua città.
Elna Rol da giovane
La sua fama di sperimentatore del paranormale, invece inizia in modo da lui stesso definito “molto banale”.

Sollecitato dal giornalista Renzo Allegri, su “L’uomo dell’impossibile”, egli risponde così:
«Era un pomeriggio di sabato. Avevo ventitré anni e mi trovavo a Marsiglia perché lavoravo in quella città. Notai nella vetrina di un tabaccaio una scatola contenente due mazzi di carte da gioco; la scatola era scivolata e un mazzo, uscendovi, si era rovesciato in maniera che non se ne scorgeva il dorso. Sull’altro mazzo era visibile il dorso di colore verde. Incuriosito, cercai di immaginare il colore dell’altro mazzo. Allontanandomi, non potevo distogliere il pensiero da quel mazzo di carte. La mia curiosità diveniva sempre più grande: quale colore aveva accostato al verde il fabbricante delle carte? Azzurro non mi sembrava possibile, rosso sarebbe stato banale, giallo… forse il giallo… ecco il giallo mi pareva adatto ad accostarsi al verde. Ritornai sui miei passi e riguardai la vetrina. I mazzi di carte erano ancora lì e poiché la mia curiosità era sempre maggiore, entrai nel negozio ed acquistai quelle carte. Rimasi molto deluso perché il mazzo rovesciato aveva il colore nero».


Rol nel 1924
Per gioco, dunque, inizia un lunghissimo studio sulla relazione che lega il suo cervello con le sorgenti del caso e della materia. Durante i primi due anni stabilisce l’esistenza di un legame essenziale tra i colori e i suoni. Un rapporto che egli stesso definisce «atto a favorire quella particolare sensazione psichica offerta dalle vibrazioni provocate dai colori e dai suoni, che avrebbe potuto tradursi in una sorta di ‘calore’.”
Va da sé che, in seguito ai primi esperimenti sulle carte, inizia a studiare le tradizioni della mistica e della teologia di tutte le religioni, immergendosi in un cammino di profonda ricerca esoterica.
Continuando a rispondere al giornalista Rol aggiunge:
«Sono indicazioni vaghe, queste, ma ho voluto fornirle egualmente per smentire che io sia nato con delle particolari facoltà sensorie, per le quali, oggi, mi si vorrebbe indicare quale ‘sensitivo’ dagli studiosi di parapsicologia. »

Casa Rol
E, non a caso, Allegri inizia la prima monografia mai scritta su questo curioso personaggio, usando le seguenti parole:

«Non è possibile dare una definizione di Rol. Egli le rifiuta e le contesta tutte. Non è un medium, non è un mago, non è un guaritore, non è un veggente, non è un paragnosta […] Le sue esibizioni sembrano violare in modo sconcertante le leggi fisiche. Sa scrivere a distanza, leggere in un libro chiusa, disintegrare gli oggetti, trasportarli senza toccarli; inoltre, sa predire il futuro, vede intorno al capo di ogni uomo la famosa “aura” di cui parla la filosofia indiana, e conosce tutto dell’individuo che osserva; è stato fotografato nello stesso istante in due città diverse, lontane migliaia di chilometri l’una dall’altra; può mettersi in comunicazione con lo “spirito intelligente” di chiunque, vivo o morto che sia; fa e fa fare viaggi nel passato e nel futuro. E tutto questo con la massima naturalezza, spontaneità, semplicità, senza mai andare in trance, a volte per strada, o anche al ristorante, come fossero azioni normali della sua normale vita quotidiana. »  

Gatto, olio su tela di G. Rol
Infatti, proprio nella consapevolezza che Renzo Allegri stia conducendo un’inchiesta sul paranormale per conto del settimanale “Gente”, egli si pronuncia in questo modo:
«Ma è sicuro che io sia importante per la sua inchiesta? Io sono una persona qualsiasi. Non ho niente a che vedere con i medium, i guaritori, gli spiritisti che lei intervista. Quello è un mondo lontano dalla mia mentalità. I miei modesti esperimenti fanno parte della scienza. Sono cose che in un futuro tutti gli uomini potranno realizzare. »

È evidente quanto sia conscio di possedere i pregi e i difetti di tutti gli altri esseri umani, seppure lo sia altrettanto di essere dotato di capacità che egli stesso non è in grado di spiegare compiutamente. Ebbene, ciononostante nutre un profondo scetticismo nei confronti dello spiritismo, mentre si sente più affine a un ricercatore dei campi del possibile a cui stanno profondamente a cuore le leggi che regolano l’attività della materia e il suo continuo mutamento, nel campo della chimica e della fisica.
Per Rol la materia è energia e ogni cosa, animata o inanimata, possiede uno “spirito” e a questo “spirito” egli conferisce una prerogativa assoluta.

Serata a casa Rol
Man mano che i suoi studi avanzano cresce la sua fama. E così entra in rapporti di conoscenza con personaggi che, a vario titolo, hanno lasciato un segno nella storia del XX secolo: Mussolini, Enrico Fermi, Curzio Malaparte, Albert Einstein, Pablo Picasso, Elisabetta d’Inghilterra, Benedetto Croce, Valentino Bompiani, Alberto Bevilacqua, John Kennedy, John Cage, Gabriele D’Annunzio, Georges Braque, Jean Cocteau, Salvador Dalì, Vittorio Valletta, Giovanni Agnelli, Cesare Romiti, Valentina Cortese, Vittorio Gassman, Giorgio Strehler, Dino Buzzati, Dino Segre, Franco Zeffirelli, Federico Fellini, e molti altri ancora.

Rol con John Cage
Sono numerosissimi gli esempi delle straordinarie esperienze condotte da Rol che vengono riportate sul libro di Allegri e su molte altre biografie a seguire. Invitandovi a sfogliare le pagine di questi libri, ne do un assaggio:

(da “Rol, L’incredibile”, di Renzo Allegri, Musumeci, 1986)
«Un giorno invitai a casa mia Rol per fargli vedere un quadro che avevo appena acquistato. So che non ama certa pittura contemporanea, ma, poiché è un grande intenditore d’arte tenevo molto al suo giudizio. Accompagnandolo in salotto gli dissi: Ecco il quadro. “Non mi piace” disse subito Rol e aggiunse: “Te lo scarabocchio”. Estrasse la sua famosa matita e la puntò contro il quadro tracciando dei segni nell’aria. Per carità non farlo, gridai io. Mi è costato un sacco di soldi. Corsi verso il quadro per vedere se Rol me lo avesse rovinato, ma non notai nessun segno. Meno male che non hai combinato disastri, esclamai sollevato. “Prova a togliere quel quadro”, disse ancora. “Lo tolsi e sul muro c’era un vasto scarabocchio a matita. Rol aveva risparmiato il mio quadro; ma aveva manifestato il suo dissenso scrivendo sul muro sotto il quadro».
«A volte Rol “scrive” anche sui tovaglioli delle persone che stanno ai tavoli vicini. Lo fa solo quando è sollecitato dagli amici, che vogliono divertirsi. Mi hanno riferito che uno di questi è Federico Fellini. Quando si trova a Torino, il riferito regista va sempre a salutare Rol. Poi lo invita a pranzo e infallibilmente gli chiede di “scrivere” a distanza, sui tovaglioli di certi commensali. Rol si rifiuta, dice che non riesce a fare qualcosa che altri vorrebbero, ma poi finisce per cedere. Fellini sceglie certi signori corpulenti, che pranzano con il tovagliolo puntato sul petto sporgente. “Scrivigli qualche epiteto spiritoso”, suggerisce a Rol. Il sensitivo traccia dei segni per aria e sul tovagliolo bianco del tranquillo commensale appaiono le frasi più strane, spesso pungenti.
Quando il “bersagliato” se ne accorge protesta con i proprietari del ristorante. Qualcuno si arrabbia, minaccia e Fellini si diverte un mondo. Un medico mi mostrò una tovaglia con una rosa disegnata sopra, una rosa in un vasetto di vetro. “Rol disegnò la rosa”, mi disse il medico “che era sul nostro tavolo, e mi donò la tovaglia” aggiunse. Gli feci osservare che mancava il vasetto. “Sei proprio incontentabile”, disse Rol “Tieni bene sollevata la tovaglia” aggiunse. Così a un metro di distanza, sotto gli occhi delle persone che erano al tavolo con noi, il vasetto venne tracciato per aria e apparve immediatamente sulla tovaglia, completando il disegno». 

(da L’uomo dell’impossibile, Viaggio nel paranormale, le storie dei sensitivi italiani nella grande inchiesta di Gente, Rusconi, 1978)
«Distribuì dei fogli di carta perfettamente bianchi. Li osservai attentamente: erano comuni fogli di carta, tolti da una risma intonsa. Ci invitò a piegarli alcune volte e a riporli al centro del tavolo. Uno di quei fogli isolato, contrassegnato e consegnato a me con l’invito di mettermelo in tasca. Lo controllai ed eseguii. A questo punto Rol chiese ai presenti di indicare un argomento. Ci consultammo e decidemmo di parlare di arte. “Sta bene” aggiunse Rol. “Parliamo pure di arte”. Si cominciò col dire che l’arte proviene dal pensiero, che è possibile dividerla in arte antica e arte moderna, arte classica e arte astratta. Rol chiese che gli dessimo una definizione di arte classica e arte astratta. Una signora disse: “L’arte classica proviene dall’espressione del pensiero”. “È una definizione non proprio ortodossa” disse Rol, “comunque va bene. Ora chiediamo all’Enciclopedia Treccani una definizione dell’arte astratta. Attraverso le carte, in modo che sia il caso a decidere, sceglieremo due numeri di due cifre ciascuno: il primo indicherà il volume dell’enciclopedia, e il secondo la pagina di quel volume. Ebbene, la prima riga della pagina che indicheranno i numeri scelti a caso, dovrà iniziare con una frase che sia una risposta logica alla domanda: ‘Da dove proviene l’arte astratta?’”. La prima carta estratta era un 2 e la seconda un 3: il primo numero quindi era il 23; il secondo risultò essere il 22. “Allora”, disse Rol “dobbiamo controllare il volume ventitreesimo a pagina 22”. Fu portato il ventitreesimo volume della Treccani: alla prima riga della pagina 22 leggemmo: ‘dalla metafisica del pensiero’. “È una buona definizione”, disse Rol. “L’arte astratta proviene dalla metafisica del pensiero. È un concetto che non mi dispiace. Mi faccia vedere il foglio che ha in tasca”, disse rivolto a me. Me ne ero dimenticato. Lo presi, e al centro a matita c’era scritto: ‘dalla metafisica del pensiero’: la stessa frase indicata nell’enciclopedia dai numeri scelti a caso. Rol sorrise guardando il mio stupore. Poi volle firmarmi il foglio a ricordo di quell’esperimento».

(da “Universo proibito”, SugarCo editore, di Leo Talamonti, 1966)
«Fu nel marzo 1961 che incontrai per la prima volta il dottor G. Rol. Gli avevo telefonato da Milano nel pomeriggio di un mercoledì, e si era rimasti d’accordo che ci saremmo incontrati in casa sua due giorni dopo, cioè il venerdì successivo, alle 21,30. Ma io anticipai la partenza e giunsi a Torino nelle prime ore pomeridiane del giovedì. Ero appena sceso in un alberghetto scelto a caso tra i numerosi della zona di Porta Susa, quando fui raggiunto da una sua telefonata assolutamente inattesa: “Ho cambiato idea: venga pure questa sera, alla stessa ora che avevamo fissato per domani”.
“Ma lei come fa a sapere che sono già arrivato e che mi trovo in questo albergo?”
“Stavo disegnando a carboncino e la mano ha scritto automaticamente il suo nome, aggiungendo l'indicazione: albergo P., stanza 91”.
Elementi, nella normalità, ignoti al sensitivo. Quando mi presentai a casa sua... avevo con me una delle solite cartelle di cuoio con vari incartamenti... mi apostrofò con queste parole: “Vedo che la sua cartella contiene due articoli sulla telepatia, già pronti ma non ancora pubblicati. Argomento interessante”. Era vero, ma come faceva a saperlo? Senza darmi il tempo di proseguire, disse: “L'avverto però che l’episodio riguardante Napoleone, di cui lei parla nel secondo articolo, contiene una inesattezza. Posso dargliene la prova”. ».

Paesaggio, olio su tela, Gustavo Rol
(da “Gustavo Adolfo Rol. Il grande precursore”, di Giuditta Dembech, ed. Ariete, 2005, un episodio vissuto in prima persona dalla giornalista e scrittrice)
«Un pomeriggio mi trovavo a casa sua, da lui c’erano due ragazze di cui non ricordo il nome. Al momento di congedarci Rol chiese di dargli un passaggio fino a Porta Nuova. Io non avevo ancora la patente e chiese di accompagnare anche me per non farmi prendere il taxi. Le ragazze avevano una microscopica Fiat Cinquecento, lui era alto un metro e novanta; ridendo, obiettarono che in quattro saremmo stati molto stretti. Da parte mia rinunciai al passaggio. Non così Rol:
“Di cosa vi preoccupate? Io posso diventare grande o anche piccolissimo! Non ci credete? Ecco qua…”
Eravamo in piedi all’ingresso, pronte per uscire, si infilò i pollici sotto alle bretelle elastiche e le tirò estendendole verso l’esterno. Un gesto normalissimo e un po’ gigione, ma…Sotto ai nostri occhi divertiti tutto il suo torace si era… espanso, gonfiato a dismisura… Estese le bretelle verso l’alto ed ecco che si era allungato anche in altezza oltre che in larghezza! Era diventato enorme come l’omone della Michelin! Toccava quasi il soffitto, dovevamo alzare la testa per guardarlo! Era buffissimo… ridevamo come pazze!
“Eh, che ne dite? Ma posso anche diventare piccolo piccolo…”
Sempre ridendo, lasciò andare con uno schiocco le bretelle elastiche sul torace, e lo vedemmo come “sgonfiarsi”, si ritirò tutto su se stesso, come se si fosse accartocciato, divenne piccolo e magro, più piccolo di me che sono alta 1,65… Giusto il tempo di farci un’altra risata divertita e, non saprei dire come, era tornato normale… Ma la cosa che oggi ritengo più incredibile è che noi tre, anziché rimanere esterrefatte, magari anche impressionate, ridevamo, come fossimo al circo…»

(da una testimonianza dello scrittore Vittorio Messori, da lui stesso riportata sullo speciale Sette del Corriere della Sera, dell’ottobre del 1994)
«Si conversava, un giorno (era con me Giuditta Dembech) nel grande salone stile Impero, in attesa di trasferirci nell’ambiente attiguo per gli “esperimenti”. Si venne a parlare di quel Cottolengo dove Rol (mi dicono) era una presenza abituale e benefica e che, come si sa, non vive che di ciò che, giorno per giorno offre la Provvidenza. Sapevo bene che non aveva mai voluto approfittare per sé delle sue capacità inspiegabili. Ma per qual motivo non per gli altri?
“Dottor Rol”, gli chiesi dunque, “perché, con questa sua possibilità, mille volte provata, di ‘prevedere’ ciò che uscirà da un mazzo di carte o da una roulette, non sbanca un casinò? Perché non sottrarre qualche miliardo a quegli speculatori per dirottarli verso chi ne ha bisogno?”. Sorrise e lasciò cadere la domanda.
Poco dopo, ci sedemmo attorno al gran tavolo antico. Lui era a un capo, io a un altro, a notevole distanza uno dall'altro. La luce nell’ambiente era piena: non era ancora del tutto buio e i lampadari di cristallo erano accesi. Dopo qualche incredibile quanto consueto – per  lui – “esperimento” con le carte, mi si rivolse all’improvviso:
“Caro amico, voglio rispondere alla sua domanda. Si alzi, nel cassetto di quel tavolino troverà una risma di fogli bianchi. Ne prenda alcuni, li esamini uno ad uno, ne controlli la filigrana in controluce. Poi li ripieghi in quattro e li infili nella tasca interna della sua giacca. E chiuda bene il bottone!”.
Eseguii, ritornai al mio posto. Rol non si era mosso dal suo, non ci si era sfiorati. Per un attimo piegò la testa all’indietro, “scrisse” nell’aria con una sua matita – famosa tra i suoi frequentatori – rivestita di bambù. Subito dopo mi disse di estrarre dalla giacca i fogli bianchi che avevo controllato a uno a uno e che io solo avevo toccato. Sul foglio più interno stava scritta, a matita, la risposta alla mia domanda:
“Sarebbe una beneficienza fatta senza sacrificio, quindi non avrebbe valore alcuno (qui, una parola indecifrabile, n.d.r.) dello spirito di Rol”.
Volle che gli consegnassi il foglio: con la stessa matita (anche se in carattere più marcato) e con la stessa calligrafia – era inconfondibilmente sua quella “apparsa” di colpo nella mia tasca, quasi che la grafite si fosse depositata venendo dall'aria – scrisse: “Proprietà del dottor Vittorio Messori, 11 aprile 1989. R”.
Lo arrotolò e me lo consegnò “per ricordo”».

Gustavo Rol 
Ebbene, come avrete intuito, non è semplice trattare il retroterra filosofico di Rol, ma di sicuro possiamo dire che esso ha molto a che fare con la fede.
Infatti, in uno degli incontri narrati dallo stesso Allegri, egli, nel cercare di spiegare alcuni passaggi inerenti ai suoi prodigiosi esperimenti, prende il libro del Vangelo e indica le seguenti parole: “È la fede che smuove i monti”. Immediatamente aggiunge:
«Non si fermi al concetto di fede religiosa. Sostituisca pure alla parola fede quella di fiducia incrollabile. È la stessa cosa. Anche coloro che non credono in Dio possono avere una fiducia incrollabile […] Avrà notato che molto raramente cito nomi di filosofi, di scienziati, o di santi perché ognuno di noi ha i mezzi per intuire da solo. Questa è la vera strada della conoscenza. È vero che i maestri agevolano il cammino, ma forse il loro passo è più lento del nostro, il loro sguardo meno acuto, la loro resistenza meno grande. La mia non è presunzione e neppure mancanza di umiltà. Riconoscendoci in ciò che è possibile compiamo un atto di fede ed allora non manchiamo certamente la meta».
Orbene, non so a voi, ma a me anche quest’ultima affermazione ricorda tanto da vicino quella espressa ne “Lo Zen e il tiro con l’arco” (p. 24): “Eppure viene il giorno in cui questo impossibile diventa possibile, anzi persino ovvio.” (se vuoi leggere l’articolo clicca QUI).

Come molti di voi già sapranno, su Gustavo Rol sono state scritte e dette tantissime cose, nel bene e nel male.
Io ho sempre guardato a quest’uomo con il grande rispetto che si rivolge agli individui intelligenti, sensibili, gioiosi, sicuramente speciali, ma soprattutto desiderosi di apportare qualcosa di buono per impedire alle persone di cadere nella disperazione, donando speranza e confidando nella pace nel mondo.

Gratitudine, olio su tela, G. Rol
E voi, cosa ne pensate?

« In un momento qualsiasi della giornata lo spirito può divenire improvvisamente sereno, come il paesaggio all'alba. E' l'istante, questo, della grande iniziazione al sublime, dove si incontrano le grandi cose, come l'amore, la speranza o addirittura la rinuncia. »
Gustavo Rol, 7 luglio 1947











BIBLIOGRAFIA:

Renzo Allegri, “L’uomo dell’impossibile”, in “Viaggio nel paranormale”, Rusconi, 1978
Renzo Allegri, “Rol, L’incredibile”, Musumeci, 1986
Leo Talamonti, “Universo proibito”, SugarCo editore, 1966
Giuditta Dembech, “Gustavo Adolfo Rol. Il grande precursore”, ed. Ariete, 2005
Vittorio Messori, Sette del Corriere della Sera, dell’ottobre del 1994
Gustavo Adolfo Rol, Wikipedia

ICONOGRAFIA:
Gustavo Rol, Renzo Allegri, L’uomo dell’impossibile, Viaggio nel paranormale, Rusconi, 1978
copertine dei libri su Gustavo Rol:  http://2000-2013.gustavorol.org/home.html
Casa Rol, Archivio Franco Rol (© Arc. F. Rol)
Rol a casa di amici, poco prima dell'inizio degli esperimenti, Archivio Franco Rol (© Arc. F. Rol)
Gustavo a cinque anni, con la madre, la sorella Tina e il fratello Carlo, Archivio Franco Rol (© Arc. F. Rol)
Rol nel 1924 in divisa da Alpino, Archivio Catterina Ferrari
Rol con il compositore americano John Cage (gustavorol.org)
Elna Rol da giovane (gustavorol.org)