venerdì 30 giugno 2017

Evelina _ 5/10



Link per accedere alle sezioni precedenti:

PRIMA PARTE

SECONDA PARTE

TERZA PARTE

QUARTA PARTE





Eccoci al quinto appuntamento con il racconto.

Fabio Mori, neo direttore della più importante banca della zona, oltreché ex allievo prediletto della nostra Evelina, giunge ospite a villa Rasini, dove viene inizialmente accolto dal giudice che lo metterà a conoscenza di un suo particolare grattacapo…  

Buona lettura! 




Émile Vernon, La Primavera, 1913




«No, no, scusa. Mi spiego meglio. Evelina sta bene, grazie al cielo e non ci sono brutte novità. Tuttavia, per noi gli anni passano e con essi se ne vanno anche la prontezza di riflessi. Talvolta anche la memoria. Insomma, come tu ben sai, capita frequentemente che, a causa delle sue molteplici attività di beneficenza, mia moglie torni a casa la sera con somme piuttosto cospicue.» a questo punto il giudice fece una pausa, durante la quale si concentrò ad assaporare il fumo del sigaro. Lo trattenne qualche istante in bocca e in seguito, assumendo un’espressione piuttosto buffa, lo fece scivolare lentamente fuori dalla bocca. Poi, dopo aver lanciato un’occhiata distratta al suo interlocutore, riprese a parlare «Ovviamente la mattina successiva si reca in banca a depositarle e si toglie un peso, ma è proprio nel momento interstiziale che la mia preoccupazione sale, soprattutto se accade in coincidenza con le mie assenze. Ora, non è mai successo nulla che mi abbia fatto scattare l’allarme, e sottolineo che il personale domestico è al di sopra di ogni sospetto, però vedi Fabio, anche il quartiere sta cambiando e ogni giorno arriva qualcuno di nuovo. Senz’altro si tratta di persone perbene, ma…» 
«La capisco» lo interruppe per un attimo Fabio che, ascoltando quel racconto, stava già formulando mentalmente delle ipotesi. 
«Bene. Ecco, diciamo anche che Evelina, soprattutto negli ultimi anni, è diventata piuttosto distratta e, insomma, non vorrei mai che a causa del suo gran daffare si ritrovasse in ambasce o peggio ancora le capitasse qualcosa di spiacevole. Mi sono spiegato?» 
«Perfettamente. Tra l’altro il clima non è certo dei migliori di questi tempi; l’economia è in forte ribasso, il lavoro scarseggia e temo che il paese entrerà a breve in guerra contro la Gran Bretagna e la Francia» 
«Eh, lo temo anch’io, anche se a leggere i giornali pare che Mussolini ogni giorno dica il contrario di ciò che aveva detto il giorno prima» 
«Esattamente! Insomma, le do ragione al cento per cento, perché di questi tempi non mancano sollecitazioni che potrebbero indurre le persone in difficoltà a commettere dei soprusi e, pertanto concordo sul fatto che girare per strada con molto denaro o portarne molto dentro casa, sia pure per una sola notte, è veramente rischioso. Lo sarebbe per chiunque, figuriamoci per una signora. Mi dia qualche giorno, non so ancora bene come fare, ma le prometto di studiare una soluzione adeguata» 
«Ti ringrazio, sapevo che mi avresti capito. Scusami ancora perché so bene che sto abusando della tua generosità, ma ora che te ne ho parlato mi sento più tranquillo. Dunque, che dici, vogliamo mostrarci in salotto?» 
Appena misero piede fuori dallo studio trovarono la governante in procinto di andare loro incontro ad annunciare che il pranzo stava per essere servito in sala. Percorsero il corridoio lasciandosi guidare dai meravigliosi profumi che aleggiavano nell’aria. 
«Carissimo Fabio!» cinguettò la donna, mentre, con un fianco appoggiato alla tavola apparecchiata, si apprestava ad accogliere il suo ospite preferito a braccia spalancate «Come sono felice di averti finalmente qui stasera!»



Arrivederci alla prossima puntata :-)


mercoledì 28 giugno 2017

Il rutilante simbolismo dei colori nel Medioevo cavalleresco – Guest post di Cristina M. Cavaliere




Erano davvero così tenebrosi i cosiddetti “secoli bui”?

Quali e quante emozioni trasmettevano le tavolozze dei tanti artisti che si sono susseguiti nell’arco di quel lunghissimo periodo storico?

Quali significati si celavano dietro ai blasoni nobiliari?

Per trovare risposta a queste e molte altre domande, non vi resta che immergervi nella piacevolissima e stimolante lettura del guest-post di Cristina Cavaliere, dedicato al Medioevo.
Rimarrete sorpresi da uno scenario imprevedibile e capace di sfatare molti luoghi comuni. 

Ringrazio Cristina per questo bell'articolo e invito tutti alla sua lettura. Ora mi faccio da parte e lascio la parola alla mia squisita ospite.


Buona continuazione!



BIOGRAFIA
Mi chiamo Cristina Rossi, e sono nata a Milano nel 1963. Sono redattrice e ricercatrice iconografica nel settore scolastico per le lingue moderne. Mi piace scrivere e sono appassionata di Storia. In quest'ambito ho scritto e pubblicato cinque romanzi, svariati racconti e due drammi teatrali. Il mio ultimo lavoro è Le Strade dei Pellegrini, appartenente al ciclo sulla Prima Crociata dal titolo La Colomba e i Leoni. Ho in cantiere un romanzo ambientato nel periodo della Rivoluzione Francese, il mio primo grande amore.

Lo pseudonimo di Cavaliere è il mio omaggio al Medioevo e, come tale, mi potete trovare presso il mio blog Il Manoscritto del Cavaliere. Vi aspetto!





Nel suo saggio Viaggiando attraverso l’Iperrealtà del 1975, Umberto Eco sostiene che osservare il Medioevo significa guardare all’infanzia. Perché questo richiamo all’età dell’uomo dove si considera il mondo con intatta freschezza e occhi meravigliati? La nomea del Medioevo come periodo buio, e quindi intriso di terrori e superstizioni, è ben diffusa; e ci deriva dai philosophe dell’Illuminismo che consideravano il predominio della Chiesa sulle coscienze come deleterio per la ragione umana. Con l’avvento del romanzo storico alla Walter Scott e con il Romanticismo letterario e poetico si assiste a una rivalutazione, ma, ancora una volta, a un travisamento dei fatti. Tanto il Medioevo è demonizzato nell’Età dei Lumi, infatti, tanto è trasfigurato nel secolo successivo. Le opere di Tolkien e la moderna cinematografia hanno fatto il resto, e il Medioevo è entrato nel nostro immaginario collettivo dotato di alcune caratteristiche non sempre rispondenti alla realtà. Come in tutti i periodi storici, anch’esso è un periodo contrassegnato da ombre dense e rischiarato da luci abbaglianti; l’autentico valore del Medioevo è che si tratta di un immenso laboratorio da cui scaturiscono innovazioni straordinarie in tutti i campi e ancora presenti nella nostra vita. E a questo fervido crogiolo possiamo attribuire tutto e il contrario di tutto, secondo la nostra sensibilità.


Cavalieri a Crécy, le Cronache di Jean Froissart

Allo stesso modo, l’aggettivo “buio” con cui è etichettato il Medioevo nel sentire comune ci porta d’istinto a immaginare persone di qualsiasi ceto sociale con indosso abiti marroni, grigi o scuri, quasi che siano perennemente a lutto, e che abitano in tetri castelli, in cupi monasteri o in villaggi fumosi; un periodo statico e privo di forza comunicativa. Anche approfondire l’argomento della vita quotidiana ci porta viceversa a scoperte sorprendenti: il Basso Medioevo è, in special modo, un periodo coloratissimo! addirittura rutilante per certi versi, e ricco di messaggi. Molte città hanno esterni di edifici pubblici ornati da affreschi e decorazioni, e durante le funzioni religiose nelle chiese, anche le più umili pievi, i fedeli possono “leggere” sulle pareti le storie dei santi, di Gesù e della Vergine dipinte con colori squillanti e in atteggiamenti vivaci. Le vetrate delle cattedrali sfolgorano di luci e colori e sembrano davvero la porta per il Paradiso. Nemmeno la moda si sottrae all’uso di colori accesi, spesso chiassosi, dove gli uomini indossano abiti appariscenti e accostamenti  audaci al pari delle donne, come avevo già scoperto nella lettura del saggio La moda. Una storia del Medioevo a oggi di Giorgio Riello, la cui recensione potete leggere al seguente link. Tra l’altro il colore non denota soltanto lo status sociale e la ricchezza, ma anche la professione cui si appartiene, ed è importante vestire obbedendo a certi dettami in modo che il messaggio arrivi all’istante. 

Il margravio Enrico di Meißen
 Codex Manesse, folio 14 verso
(XIV secolo)
Anche per il cavaliere medievale accade lo stesso, e il colore entra per gradi nei blasoni nobiliari e negli abiti, dapprima con qualche esitazione, poi in modo sempre più sistematico; e, da ultimo, rigidamente codificato. La cultura cavalleresca si arricchisce quindi di una complessa messe di simboli, che spiccano soprattutto nell’araldica, in cui i colori esprimono significati simbolici ed esoterici, e cambiano secondo gli accostamenti. È per questo motivo che Il blasone dei colori. Il simbolismo del colore nella Cavalleria medievale di Sicille, pubblicato per la prima volta a Parigi nel 1495, ha un’immediata fortuna e gode di numerose riedizioni.

L’autore del trattato è Sicille, nome d’arme di Jean Courtois, araldo di Pietro di Lussemburgo prima, poi di Luigi duca d’Angiò e re di Gerusalemme e infine di Alfonso V re d’Aragona. Jean Courtois vive in pieno il delicato passaggio dal Medioevo all’età moderna e in special modo il cambiamento da un tipo di arte militare a un’altra, soprattutto nell’utilizzo preponderante delle armi da fuoco rispetto alla spada e altre armi da taglio. Per questo motivo è testimone del grande conflitto che oppone la monarchia francese al ducato di Borgogna e che si conclude con la stipula del trattato di Pace di Arras nel 1435. Forte della sua esperienza di diplomatico e funzionario alla corte dei suoi signori, egli decide di scrivere un’opera ampia e articolata destinata al “nobile ufficio delle armi” proprio per rammentare le origini e gli sviluppi della categoria dei maestri d’arme, cioè i depositari della tradizione cavalleresca. Nei suoi intenti l’opera sarebbe stata ripartita in quattro sezioni: la prima, storica, volta a ripercorrere lo sviluppo della professione; una seconda di pratica del modo di ingaggiare battaglia secondo gli usi del passato e del presente; una terza di istruzione per gli araldi e maestri d’arme nei tornei e nelle giostre.

La quarta è proprio Il blasone dei colori e in quest’ultima parte egli si propone di spiegare come “blasonare”.  
Il blasone dei colori. Il simbolismo del colore
 nella Cavalleria medievale di Sicille
 – Il Cerchio.
 

Il “blasone” non è tanto lo stemma comunemente inteso, quanto la descrizione degli smalti e delle figure negli stemmi secondo i criteri e le norme dell’araldica. Per farlo si serve di una finzione molto usata all’epoca quando si impartiscono gli insegnamenti: finge di rivolgersi a un apprendista, che di quando in quando gli pone delle domande. Il trattato sui colori è così diviso in due parti: la prima esamina il significato che assumono i colori posti negli scudi araldici (arme); la seconda il significato dei colori, e la combinazione degli stessi, negli abiti che s’indossano (livree). La “devise” qui è la divisa, ovvero il significato dei colori che si indossano e soltanto in un secondo tempi è diventato sinonimo di uniforme nel senso di foggia e colore di abito comune a persone appartenenti a uno stesso gruppo o istituzione. La “livrea” è invece la combinazione dei colori che s’indossano per scelta.

Per avvalorare la sua esposizione, l’autore chiama in causa delle auctoritates nel campo, in altre parole le fonti antiche cui attingere, la prima delle quali è il fundamentum nell’araldica di Aristotele, dove si attribuiva addirittura ad Alessandro Magno la volontà di assegnare ai suoi capitani insegne, bandiere e cotte d’armi a seconda del diverso ardimento dimostrato. Altra opera che l’autore chiama molto spesso in causa è L’Arbre des batailles di Honoré Bonnet, priore di Salon nella diocesi di Rennes, che, stampato per la prima volta a Lione nel 1481, riscuote un grandissimo successo. 

Jean Courtois inizia la sua trattazione con un Prologo in cui con aria di finta modestia chiarisce i motivi che l’hanno spinto a scrivere la sua opera, e tuttavia si definisce impari rispetto al compito cui si è dedicato; per questo motivo chiede a priori l’indulgenza dei lettori. Entrando nel vivo, innanzitutto si occupa dei metalli da apporre sugli scudi: l’oro e l’argento. L’oro è il più nobile dei metalli, chiaro e luminoso, e raffigura il sole dispensatore di luce. Egli richiama molti esempi  tratti dall’Antico Testamento sull’uso dell’oro come compendio di virtù, come il tempio del sapiente re Salomone; o anche, come nella mitologia, Giasone che ebbe l’incarico di rubare il vello doro. Il cielo eterno dei beati è, giustappunto, rappresentato dall’oro come termine di paragone. L’oro si paragona al topazio; e, tra le virtù, alla ricchezza. Qui l’autore non perde occasione per ricordare che il cristianissimo re di Francia ha sul proprio scudo i gigli d’oro, arrivati dal cielo e perciò nobilmente apposti su un fondo azzurro.  

Stemma di Carlo I d'Angiò, conte d'Angiò,
re di Sicilia e di Gerusalemme.
Questo stemma è poi divenuto quello
del regno di Napoli. Si tratta dello stemma
di Francia (a gigli dorati su sfondo blu)
 spezzato da un lambello rosso.

L’argento è il secondo metallo, e rinvia all’acqua; rappresenta, per questo motivo, la purezza e l’innocenza, tanto è vero che nella Scrittura le vesti di Gesù Cristo appaiono agli apostoli bianche come la neve. Jean Courtois ammonisce che non si possono avere i due metalli insieme, ma occorre sceglierne uno per dargli maggiore risalto e perché non vi sia confusione sul messaggio da trasmettere.  

Una delle regole alla base del trattato di Courtois è che ci possono essere armi senza figure, ma non senza colori; da qui è necessario stabilirne una scala gerarchica nel valore. Il vermiglio è il colore per eccellenza, escludendo i metalli, ed è il più importante perché richiama il coraggio e il sangue dell’uomo. Si paragona al rubino, pietra preziosissima e, nelle complessioni, l’uomo collerico secondo l’antica suddivisione nei temperamenti.

blasone di Guglielmo duca di Normandia,
conosciuto anche come Guglielmo I il Conquistatore:
due leopardi in oro, con gli artigli e
la lingua colorati in azzurro, su fondo rosso.

L’azzurro rappresenta il cielo e l’aria; materia capace di assorbire le influenze della luce. È paragonato allo zaffiro, e come virtù richiama la lealtà, e nelle complessioni l’uomo sanguigno. Il nero è pure un colore, ed è detto in araldica sable. Rappresenta la terra, che significa tristezza, poiché è più lontana dalla luminosità di tutti gli altri elementi; ricorda il diamante e l’uomo melanconico. Anche se è il colore del lutto, indica comunque grande dignità e alta posizione. Il sesto colore è il verde, detto sinople e rappresenta i boschi, i prati, i campi e la verzura. Tra le virtù è paragonato all’allegria e alla giovinezza. È paragonato allo smeraldo. Segue il porpora, che si ottiene quando si mescolano i sei colori precedenti. Diverso è il giudizio che se ne dà, in quanto secondo alcuni è il più nobile, e per altri è il più basso.

I colori non possiedono soltanto un significato intrinseco, ma lo ottengono in rapporto con altri colori cui sono accostati, e che ne cambiano il significato; con i giorni della settimana, o addirittura i dodici mesi dell’anno; con le virtù mondane e quelle teologali; con le sette età dell’uomo e le quattro complessioni; con le pietre preziose e i quattro elementi; e in rapporto con i sette principali pianeti. L’astrologia è, difatti, materia importantissima nel Medioevo, e i signori non mancano di avere a corte il proprio astrologo cui rivolgersi prima di prendere decisioni cruciali. Nell’opera c’è anche una curiosa tavola di come i Greci blasonavano i loro colori, secondo i metalli e nella loro lingua, e alcune pagine su come le genti esotiche considerano i colori e come li producono.

Non lo sospettiamo affatto, ma ancora oggi ci imbattiamo nell’araldica medievale sotto le più svariate forme pubblicitarie, sia nei segni (basti pensare al logo di un’azienda) che nei colori (la scelta di un colore caldo anziché freddo, o di un particolare abbinamento). Solo che, a differenza di Jean Courtois, abbiamo perso gli strumenti per interpretare appieno questa morfologia di segni, che agiscono in noi in maniera molto spesso subliminale e condizionano le nostre scelte. Parimenti, anche sui monumenti e sulle opere d’arte campeggiano messaggi ben precisi e vicino a loro noi passiamo, indifferenti e immemori. Del resto si tratta di un discorso molto esteso, che altri hanno affrontato meglio di me.

Per tornare alla mia recensione dell’opera, è evidente quanto Jean Courtois tiri l’acqua al mulino della casa reale di Francia, che egli loda e ricorda attraverso l’uso dei colori e dei simboli nella loro araldica; e mentre impartisce le sue lezioni all’apprendista lo si può agevolmente immaginare come un maestro piuttosto pedante, con il sopracciglio aggrottato e con il dito ammonitore. Al di là di questo atteggiamento, che ci strappa un sorriso, la sua opera Il blasone dei colori è non solo interessantissima, ma pittoricamente incantevole e, a tratti, addirittura fiabesca


La caricatura di Ulrich von Liechtenstein
- Codex Manesse
(XIV secolo). Ulrich von Liechtenstein (1200-1275)
è stato un poeta tedesco.
Nobile del ramo dei von Liechtenstein
 della Stiria, svolse un'intensa
attività pubblica,  improntata
all'affermazione, ormai
fuori tempo, degli ideali cavallereschi,
 che si riflette anche nella sua opera.


































***
Fonti immagini Wikipedia:
Figura 1: Cavalieri a Crécy, le Cronache di Jean Froissartda un manoscritto illuminato.
Figura 2: Il margravio Enrico di Meißen - Codex Manesse, folio 14 verso (XIV secolo).
Figura 3: Il blasone dei colori. Il simbolismo del colore nella Cavalleria medievale di Sicille – Il Cerchio.
Figura 4: Stemma di Carlo I d'Angiò, conte d'Angiò, re di Sicilia e di Gerusalemme. Questo stemma è poi divenuto quello del regno di Napoli. Si tratta dello stemma di Francia (a gigli dorati su sfondo blu) spezzato da un lambello rosso.
Figura 5: blasone di Guglielmo duca di Normandia, conosciuto anche come Guglielmo I il Conquistatore: due leopardi in oro, con gli artigli e la lingua colorati in azzurro, su fondo rosso.
Figura 6: La caricatura di Ulrich von Liechtenstein tratta dal Codex Manesse (XIV secolo). Ulrich von Liechtenstein (1200-1275) è stato un poeta tedesco. Nobile del ramo dei von Liechtenstein della Stiria, svolse un'intensa attività pubblica, improntata all'affermazione, ormai fuori tempo, degli ideali cavallereschi, che si riflette anche nella sua opera.

lunedì 26 giugno 2017

Magia dei numeri




Se già seguite la rubrica dedicata ai Tarocchi che ciclicamente viene pubblicata su questo blog, non troverete nulla di strano nel sentir parlare di relazione tra numeri e magia.

Immagino, però, che qualcuno tra voi starà pensando: “La matematica è scienza, cara cialtrona. Non mi freghi con le tue panzane, da due soldi, intrise di mistero!”


Suvvia, non infiammatevi per così poco, che fa anche caldo :D… non ho nessuna intenzione di spacciarmi per un’esperta di questa materia. Tuttavia, vi propongo un percorso attraverso il quale scopriremo alcuni aspetti che vanno a costituire quel particolare legame

Se vi va, seguitemi.

Raffaello, La Scuola di Atene, dettaglio su Euclide, matematico greco


Anzitutto chiediamoci quando è stato introdotto il concetto di numero.
È possibile immaginare che l’uomo primitivo iniziò a contare quando effettuò il passaggio dal ruolo di cacciatore/raccoglitore a quello di agricoltore/allevatore. Durante questo passaggio si trovò sicuramente in condizione di dover elaborare un sistema per contare i suoi beni. Un pastore deve sapere quanti capi di bestiame sono usciti dalla stalla per pascolare nel prato e quanti ne sono rientrati. In un primo momento avrà associato tanti sassolini quante erano le sue pecore in uscita e al ritorno avrà tolto una pietra per ciascun capo che rientrava nella stalla (calcolo deriva dal latino calculus: piccola pietra). Il nostro uomo, fin qui, avrebbe potuto anche far a meno dei numeri, ma è probabile che a un certo punto abbia avuto bisogno di effettuare quel calcolo con maggiore immediatezza.

In questo modo sono nati i primi sistemi di numerazione. Dunque, nell’Età della Pietra, nasce il metodo delle tacche per il conteggio; tacche che vengono segnate su un osso o su un legno. Si tratta di un sistema quasi scritturale. Però il nostro uomo si accorge che, con esse, il conteggio acquista nuovi problemi, perché, giusto per fare un esempio, esiste il rischio di dimenticarsi di segnarne una. Via via, seguirono quindi nuovi processi, finché a qualcuno venne in mente di rappresentare le quantità con i numeri.

L’introduzione di un sistema di numerazione comporta un forte processo di astrazione, un gigantesco sforzo mentale paragonabile a quello dell’apprendimento di un linguaggio e l’aspetto sorprendente è che la disciplina che studia i numeri, lo spazio, le strutture e il calcolo, cioè la matematica, si è sviluppata indipendentemente in culture completamente differenti che arrivarono agli stessi risultati.

I numeri, così come li conosciamo noi, nacquero in India tra il 400 a.C. e il 400 d.C. e furono trasmessi prima nell’Asia Occidentale, dove trovano menzione nel IX secolo (in arabo, i numeri come li intendiamo oggi, sono chiamati numeri indiani) e raggiunsero l’Europa, attraverso il lavoro di matematici e astronomi arabi (da qui l’equivoco di attribuzione), nel X secolo.
Quindi i simboli da 0 a 9 si evolsero dai numeri brahmi.

Prima di inoltrarci in questo territorio, bisogna tenere in considerazione che la conoscenza scientifica, tra cui la matematica, non è mai riconducibile al lavoro di una sola persona, ma ad un insieme di persone che via via ha dato origine a una comunità. È intorno a quelli che noi oggi potremmo qualificare come “centri di informazione” che si è potuto evolvere il pensiero scientifico.

numeri indiani

Nei testi filosofico-religiosi dell'India, come ad esempio nelle scritture induiste e buddiste, si riscontra l’utilizzo di simboli che vanno dall’1 al 9, appunto, i cosiddetti numeri brahmi. I centri di informazione, in questo caso erano i templi. Sempre in India, inoltre, sono stati ritrovati numerosi documenti, risalenti al V secolo, nei quali compare il simbolo dello 0.
All’interno di questi testi ogni cifra trova un significato corrispondente. Così, lo 0 viene associato al vuoto, quello stato da raggiungere se ci si vuole liberare dal Samsara (ciclo perenne del divenire; trasmigrazione; corso dell’indefinita successione di nascita-vita-morte-rinascita); il numero 1 coincide con il punto dal quale inizia la creazione e si sviluppa la molteplicità; il 3 fa riferimento a: i tre corpi (grossolano, discriminativo, astrale), la coscienza individuata, la coscienza umana globale, la suprema Intelligenza o intelligenza cosmica; l’8 si riferisce all’infinito, il senza fine; il 108 trova molteplici associazioni: la quantità delle divinità indù, la Creazione del Mondo attraverso l’unione di Siva e Shakti, la quantità delle pose necessarie a completare la danza cosmica, la quantità delle Upanisad accertate, la quantità di peccati e di bugie contemplate dal monachesimo tibetano, il prodotto della moltiplicazione dei 9 pianeti attraverso le 12 costellazioni, il numero di anni in cui intercorre un’eclissi di luna, e così via


O. Von Corven, Antica Biblioteca di Alessandria, l'interno
– sulla base delle evidenze archeologiche – XIX secolo

Nel mondo antico occidentale, invece, uno dei centri di informazione più importanti è senza dubbio la biblioteca di Alessandria, costruita intorno al III secolo a.C. durante il regno di Tolomeo II Filadelfo.

All’interno di questa struttura, grazie a un elevatissimo numero di copisti, venivano riprodotte copie dei manoscritti inerenti a ingegneria, filosofia, arte, matematica, musica, portati fin lì dai mercanti come salvacondotto per approdare al porto di Alessandria. I trattati originali venivano trattenuti in sede, mentre ai mercanti venivano consegnate le copie conservate nelle custodie originali, così da ingannare i proprietari. Però Alessandria, oltre ad essere il centro dove venivano raccolte le informazioni, costituiva anche il luogo in cui quelle stesse informazioni venivano gestite. Ben presto numerosi studiosi di tutte le discipline accorsero in quel luogo dove si tenevano lezioni e il sapere veniva condiviso con altri discepoli. La geometria che ancora oggi studiamo, ad esempio, è nata in quelle aule. Ma sempre nel III secolo a.C. fu proprio in questa biblioteca che iniziò la traduzione dell'Antico Testamento, dall’ebraico al greco, e che divenne nota come Septuaginta o “Bibbia dei Settanta”.

Perché vi dico questo? Perché è importante tener presente che i numeri entrano a far parte del tessuto culturale, che via via raggiunge l’intera società, in modo indiretto e uno di questi modi è senz’altro la Bibbia.


Sezione del Pentateuco in ebraico,
British Library Oriental MS. 4.445,
contenente la Massorah Magna e Parva

Il quarto libro della Bibbia, infatti, si intitola NumeriNumeri fa parte del “Pentateuco”, il nome che designa l’insieme dei primi cinque libri della Bibbia: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio. Il termine, di origine greca, significa “cinque astucci”, cioè i contenitore cilindrici che custodivano. Pentateuco significa dunque “libro dei cinque rotoli”. Nella tradizione ebraica il Pentateuco costituisce la Torah, cioè la Legge (letteralmente Torah significa però “insegnamento”, “istruzione”) e rappresenta il cuore della Bibbia ebraica e della rivelazione di Dio al suo popolo.

Di primo acchito, Numeri appare come un libro di contabilità che fornisce il conto preciso di tutte le quantità presenti nello scenario storico al quale faceva riferimento, dai capi tribù, ai capi bestiame. In realtà, si rivela presto anche un libro di chiavi segrete destinato agli iniziati in grado di decodificare i suoi messaggi. I numeri, infatti, non rappresentano solo la quantità, ma possiedono ciascuno un significato. Facciamo subito degli esempi: l’1 rappresenta Dio; il 2 l’uomo; il 3 la totalità delle cose, e così via.

Martino Polono, Papa Silvestro II e il Diavolo,
illustrazione dal Martini Oppaviensis Chronicon
pontificum et imperatorum
(Cod. Pal. germ. 137, Folio 216v), 1460 ca.
In Europa, invece, la conoscenza dei numeri iniziò a diffondersi solo nel 980, grazie a Gerberto di Aurillac (più tardi noto come Papa Silvestro II) che ne venne in contatto con il mondo islamico a seguito di un lungo soggiorno in un monastero benedettino presso Barcellona. 

Ma nell’epoca più oscura della cultura europea, le cifre venivano considerate misteriosi segni di una scrittura segreta e per questo intesi coma materia malefica

Quando in Europa si introdussero le prime cifre indiane (o arabe, che dir si voglia) nelle colonne dell’abaco, le si sostituirono con i numeri romani, perché considerate “segni diabolici”. Addirittura, sei secoli dopo la morte di papa Silvestro II, la Chiesa ordinò di riaprire la tomba per verificare se fossero ancora presenti i demoni che gli avevano ispirato la scienza dei numeri. D’altronde, già alcuni suoi contemporanei cominciarono a ritenere che Gerberto d'Aurillac fosse un mago, uno stregone dotato di poteri magici avuti in base al contratto con il demonio e anche in seguito, sulla scia di questa letteratura calunniosa, si diffuse una ricca diffamazione tutta incentrata sulle arti magiche e la bassa moralità del pontefice francese

Esempio di abaco, con numeri romani,
datato intorno al 1340

Insomma, quando la “cultura numerica” fece il suo ingresso negli oscuri corridoi del Medioevo, fu ostacolata. La Chiesa cattolica fece una chiara distinzione tra le diverse concezioni filosofiche del mondo e i principi inamovibili ai quali si conformava la sua dottrina. Uno dei veicoli che, nonostante la condanna ecclesiastica, riuscì a penetrare attraverso le barriere dell’intolleranza fu il gioco dei Tarocchi

Il carattere ambiguo con il quale venivano redatti molti testi relativi agli Arcani non permise alla Chiesa di capire bene fino in fondo se si parlava di riti divinatori o di matematica!




AAlbrecht Dürer,  Melancolia, 1514
Staatliche Kunsthalle, Karlsruhe
Non a caso, i Tarocchi sono basati su un sistema di numerazione decimale in cui viene assegnato a ciascun numero un significato. 

Essi partono dal numero 1, dall’unità come principio unico, e dal 2, simbolo della polarità, dunque della generazione. Il 3 è la direzione che prende il 2, mediante la somma di 2+1. Il 7, rappresenta l’azione dell’1, che sviluppa la potenza contenuta nel 6. E così via. 
In questo modo, partendo dall’unità si attribuiscono principi basilari ai primi nove numeri e qualunque altro numero deve poter essere ridotto a uno di essi. Esattamente come si determina la somma dei cosiddetti “quadrati magici”.    


Albrecht Dürer, Melencolia, 1514, dettaglio del quadrato magico.
Si definisce somma magica l'operazione che si svolge nei quadrati magici, che prevedono una disposizione di numeri in forma di quadrato tale per cui la somma delle righe, colonne, diagonali dia sempre lo stesso risultato. Oggi, grazie ai computer, si conoscono algoritmi che consentono di costruire un gran numero di quadrati magici.




ccc

Al di là degli incidenti di percorso, possiamo serenamente dire che esiste una tradizione storica della matematica nella quale i numeri sono stati oggetto di indagine filosofica e di culto religioso.
Stiamo parlando di “aritmologia”, termine che, come indica il vocabolario Treccani, viene “usato talvolta nel linguaggio filosofico per indicare la concezione e interpretazione del numero come simbolo, con riferimento a dottrine neopitagoriche e neoplatoniche”.

Oggi sappiamo che queste due discipline sono nettamente separate, ma nel corso della storia si sono unite e disgiunte più e più volte. Allo stesso modo è importante ricordare che i matematici, prima di giungere al rigore scientifico al quale siamo abituati ora, si sono mossi in una selva intricata che, coi suoi sentieri contorti, si perde nella notte dei tempi.

Tuttavia, la relazione tra numeri e magia va ben oltre a ciò che abbiamo incontrato in questo nostro percorso immaginario, finora. La matematica, infatti, è costellata di misteri irrisolti e di paradossi intriganti legati ai numeri, a partire da quelli inerenti i numeri primi (la maggior parte dei numeri può essere divisa per ottenere numeri più piccoli. Questi ultimi, a loro volta, possono essere scomposti, ma alla fine otteniamo numeri indivisibili: si tratta dei numeri primi).

Così, nella storia dei numeri troviamo personaggi destinati a grandi scoperte, i quali, tuttavia, non esisterebbero senza un tessuto culturale di riferimento. In altre parole, le organizzazioni sociali, come i templi indiani, la biblioteca di Alessandria, altre grandi biblioteche, come quella sorta all’interno della Sacra di S. Michele (per leggere clicca QUI e QUI ) e altre istituzioni sono state a tutti gli effetti il veicolo ideale perché lo sviluppo scientifico sia potuto avanzare, anche se tale processo talvolta ha richiesto passaggi misteriosi.

Una delle caratteristiche più frequenti tra questi illustri matematici – soprattutto in relazione a coloro che si sono occupati principalmente di numeri primi – è, infatti, quella di possedere il dono di “vedere” dei numeri nell’universo e da quelle visioni prendere ispirazione per arrivare a elaborare dei teoremi. La seconda dote – non meno sorprendente soprattutto in riferimento a epoche nelle quali gli strumenti di calcolo erano pressoché inesistenti – è quella di possedere una straordinaria abilità nel calcolo mentale.   
Per comprendere di cosa sto parlando, vi propongo una brevissima incursione nella vita di alcuni di questi personaggi.

Pierre de Fermat, 1601-1665,
matematico francese

Pierre de Fermat, naque vicino a Tolosa nel 1601 ed è stato uno tra i più importanti contributori allo sviluppo della matematica moderna. Fermat era un avvocato che solo nel tempo libero si occupava, per diletto, di letteratura e matematica.
Una delle sue caratteristiche fu quella di non spiegare quasi mai come avesse ottenuto i propri risultati.
Leggete voi stessi cosa scriveva (!):

È impossibile scrivere un cubo come somma di due cubi o una quarta potenza come somma di due quarte potenze o, in generale, nessun numero che sia una potenza maggiore di due può essere scritto come somma di due potenze dello stesso valore. Dispongo di una meravigliosa dimostrazione di questo teorema che non può essere contenuta nel margine troppo stretto della pagina

L’abitudine a omettere la dimostrazione dei suoi teoremi, adducendo la scusa che essa fosse troppo lunga, spinse gli storici contemporanei a immaginare che egli non conoscesse affatto la dimostrazione delle congetture che arrivò a formulare.
Ci troviamo di fronte, dunque, a uno dei tanti visionari che popolano il mondo dei numeri.  
Uno dei risultati che egli non dimostrò mai, ad esempio, fu la proprietà secondo cui “ogni numero primo nella forma 4n +1 può essere espresso come la somma di due quadrati”. Questa proprietà venne dimostrata da Eulero (Leonhard Euler, matematico e fisico svizzero) nel 1749 dopo averci lavorato sopra per sette anni.
Addirittura, quello conosciuto come “Ultimo teorema di Fermat”, secondo cui “se n è un numero intero maggiore di 2, allora non esistono numeri interi x, y, z diversi da 0 tali da soddisfare l’uguaglianza”, venne affrontato invano da valenti matematici nel corso di 350 anni, tanto che la maggior parte delle comunità scientifiche erano giunte a pensare che la dimostrazione stessa fosse impossibile da ottenere. Invece, nel 1995, Andrew John Wiles riuscì a risolverla.


Ritratto di Carl Friedrich Gauss,
opera di Christian Albrecht Jensen
Joahn Carl Friedrich Gauss, nacque in Germania nel 1777 da una famiglia molto umile. Già a nove anni si distinse tra gli altri alunni della sua classe per possedere una rapidità di calcolo impressionante. Grazie alle sue formidabili doti, il ragazzo ottenne borse di studio che gli consentirono di affrancarsi dall’originario contesto rurale per conseguire il titolo di direttore dell’osservatorio astronomico dell’Università di Gottinga e diventare il “principe della matematica”.

Già a 14 anni, Gauss si concentrò sullo studio dei numeri primi e, con gli anni, arrivò a formulare una congettura che non divulgò in quanto non aveva modo di dimostrarla, con un’argomentazione oggettiva. La congettura di Gauss si sarebbe trasformata in un importantissimo teorema solo nel 1896, ovvero un secolo più tardi, grazie a Jacques Hadamard e C.J. de la Vallée Poussin. A 18 anni creò un metodo di osservazione statistica mirata all’individuazione degli errori. La “campana di Gauss” è, senza dubbio, una delle più famose curve matematiche esistenti, che oltretutto gli procurò una rendita molto vantaggiosa. 


screenshot del film L’uomo che vide l’infinito. Fonte: Wikipedia
Ed ecco, ora, un matematico indiano protagonista di una bella biografia, scritta da Robert Kanigel, da cui, nel 2015,  è stato tratto il film, scritto e diretto da Matt Brown: L’uomo che vide l’infinitoSe non avete ancora avuto occasione di vederlo, fatelo: è emozionante e interpretato splendidamente.

Srinivasa Ramanujan

Srinivasa Ramanujan, nacque, da una famiglia di umili origini, il 22 dicembre 1887, in India, in un piccolo paese vicino a Madras. 

Le sue straordinarie qualità matematiche, sia mnemoniche che di calcolo, si manifestarono già nella sua più tenera infanzia. A causa delle circostanze in cui ebbe luogo la sua istruzione, Ramanujan mancava dei mezzi formali necessari a sostenere la dimostrazione delle sue congetture matematiche. 

Egli “vedeva” i risultati delle sue congetture, ma aveva difficoltà a dimostrarne l’esattezza in un contesto quale quello della comunità matematica.

A 22 anni, nel 1909, entrò come contabile nella Compagnia Portuale di Madras. Il suo unico obiettivo era di poter provvedere al sostentamento della sua famiglia e di potersi dedicare alla matematica. Nel 1913, dopo aver inviato all’indirizzo di vari matematici europei, una lettera di presentazione, alla quale aveva allegato i propri lavori matematici, ricevette da Godfrey Harold Hardy una borsa di studio perché si trasferisse a Cambridge.

Dopo varie traversie, raggiunse Hardy in Inghilterra e da lì ebbe inizio una fruttuosa collaborazione. Nei cinque anni in cui visse a Cambridge pubblicò ventuno articoli, cinque dei quali in collaborazione con Hardy, che arrivò a dichiarare: “Io ho imparato da lui molto più di quanto lui abbia appreso da me”.

Ramanujan lavorò principalmente sulla teoria analitica dei numeri ed è noto per molte formule di sommatorie che coinvolgono costanti come π, numeri primi e la funzione di partizione. 
Hardy paragonò Ramanujan ai giganti della matematica come Eulero e Jacobi. Ramanujan fu in seguito nominato membro del Trinity e ricevette, come massima onorificenza nella scienza, la nomina a membro della Royal Society.

Frequentemente le sue formule furono enunciate senza dimostrazione e solo in seguito si rivelarono corrette. I suoi risultati hanno ispirato un gran numero di ricerche matematiche successive.
Senza istruzione e senza mezzi economici, quest’uomo finì col diventare uno dei matematici più importanti della sua epoca e il maggiore della storia dell’India.

Concludo questo post con una domanda:

secondo voi, i numeri esistono come entità autonome e sono lì per essere scoperti o siamo noi ad averli inventati?


Alla prossima! :)



BIBLIOGRAFIA:
Storia dei numeri, Wikipedia
Storia della matematica, Wikipedia
Matematica, Wikipedia
Biblioteca di Alessandria, Wikipedia
Papa Silvestro II, Wikipedia
Quadrato magico. Wikipedia e Enciclopedia Treccani
Aritmologia. Dizionario Treccani
Vimala Takar, Kata Upanisad: L’alchimia della vita, Edizioni Mediterranee
Pierre de Fermat. Wikipedia, Enciclopedia Treccani
Carl Friedrich Gauss. Wikipedia, Enciclopedia Treccani
Srinivasa Ramanujan. Wikipedia, Enciclopedia Treccani

ICONOGRAFIA:
Raffaello, La Scuola di Atene, dettaglio- Wikipedia
Sezione del Pentateuco in ebraico, British Library Oriental MS. 4.445, contenente la Massorah Magna e Parva. Wikipedia
Martino Polono, Papa Silvestro II e il Diavolo, illustrazione dal Martini Oppaviensis Chronicon pontificum et imperatorum. Wikipedia
Gerberto d'Aurillac, De geometria, fol 12v, Baviera, copia manoscritto del XII secolo. Wikipedia
Albrecht Dürer, Melencolia, 1514, Staatliche Kunsthalle, Karlsruhe
Albrecht Dürer, Melencolia, 1514, dettaglio del quadrato magico – Wikipedia
Pierre de Fermat. Wikipedia
Christian Albrecht Jensen, Ritratto di Carl Friedrich Gauss. Wikipedia
Srinivasa Ramanujan. Wikipedia
Screenshot del film L’uomo che vide l’infinito. Wikipedia